Era sbarcato a Napoli con gli Aragonesi, sul finire del 1300, quando i sovrani Spagnoli, che venivano a prendere possesso del loro nuovo regno, ci riempirono le stive delle navi. Dovevano aver saputo che da quelle parti si mangiava poco e male e così si erano fatti un po’ di provviste. E non erano di sicuro tutte balle quelle che li avevano spaventati perché, volenti o nolenti, vista la scarsità di cibo e di quattrini, a quell’epoca i napoletani erano già tutti a dieta mediterranea a base di verdure e cavoli soprattutto, tanto da essere stati soprannominati, con una certa cattiveria, “I Mangiafoglia”. Ma nonostante la fame di Napoli, il riso degli Aragonesi non fu molto apprezzato anche perché, nel frattempo, stava arrivando, sia pure per altre vie, la pasta. che sarebbe ben presto diventata il simbolo della gastronomia napoletana. Al riso dunque fu riservato uno scarso successo e se non sparì del tutto dalla circolazione si deve al fatto che, la grande Scuola Medica Salernitana, ne scoprì le virtù curative e gli trovò largo impiego nella cura delle malattie gastro- enteriche. Ma questo non fece che aumentare la diffidenza dei napoletani che, ben presto, finirono per associare il riso alla malattia stessa. Dopo un po’ il riso si rassegnò, prese altre strade e si trovò benissimo negli acquitrini del Nord Italia, dove soprattutto in Veneto, Piemonte e Lombardia, diventò uno dei cardini dell’economia e un alimento privilegiato nella preparazione dei ricchi piatti riservati alla nobiltà e alla borghesia. E ce ne mise per tornare al sud! Più di tre secoli e tutto questo avvenne quando Napoli divenne una città cosmopolita, tutta tesa a gareggiare con le più importanti città europee. E’ vero che dopo l’Unità d’Italia c’è stata una lunga e perversa campagna denigratoria contro i Borboni, e il regno delle 2 Sicilie. Ma si sa, la storia la fanno i vincitori e faceva molto comodo, ai nuovi padroni, presentarsi come i “Salvatori della Patria.”
Invece Napoli, nella seconda metà del ‘700 era tutta un fervore di Illuminismo che la Monarchia assorbiva e poi trasformava in riforme. Uno sforzo enorme per rendere laica l’istruzione – e non era stato facile visto che lo Stato confinava con il Papato di Roma – una nuova rete stradale, l’Università con le nuove facoltà scientifiche, la porcellana di Capodimonte, che nulla aveva da invidiare alle prestigiose fabbriche francesi o inglesi, e poi … soprattutto, e questa fu la cosa più importante, Napoli aveva una Regina. Maria Carolina veniva dal Nord, emancipata, illuminista, massone e molto ambiziosa. Ci mise poco a entrare nel cuore del potere, scardinando il Primo Ministro e il Re che, del resto, preferiva spesso andarsene a caccia, sapendo di lasciare il regno in buone mani. Fra le altre cose Maria Carolina volle che, l’opificio di San Leucio, da dove cominciava a uscire la seta più bella del mondo, diventasse una Repubblica Socialista, con parte dei beni in comune e una rigorosa parità dei sessi in cui le donne ereditavano, si sceglievano da sole il marito e avevano una stipendio uguale a quello degli uomini. Cosa non da poco se si considera che a tutt’oggi questo concetto fa ancora fatica a farsi strada. In politica estera la regina mise un p0’ da parte suocero e cognato re di Spagna e si avvicinò sempre di più all’Austria a all’Inghilterra, ma quando si parlava di cultura o di bellezza il cuore di Maria Carolina batteva tutto per la Francia, tanto da trasformare la bigotta corte, che aveva trovato al suo arrivo a Napoli, in una sfarzosa festa senza fine dove però si dava grande spazio anche ai migliori intelletti di quel tempo illuminato. E visto che la corte era anche la sede dei fastosi banchetti dove si costruivano le alleanze o si preparavano le guerre, i veri dominatori della Corte Reale e delle Corti principesche, che riempivano di fasto la vita napoletana, erano diventati i cuochi francesi, perché era dalla Francia che veniva la più eccelsa preparazione dei cibi, divenuta arte raffinata e incontrastata.
E dal cibo a tutto il resto il passo è breve e così presto ci si vestirà alla francese e si parlerà in francese! Lingua d’obbligo ormai di tutti i salotti bene, anche se, a volte, si tingeva un po’ di napoletano, tanto che i cuochi, sia quelli strettamente francesi, sia quelli napoletani trasformisti, venivano chiamati “Monsù.” La più dura battaglia di questi Monsù con i loro padroni, fu la battaglia del riso, già divina pietanza d’oltralpe, ma al quale regnanti e principi seguitavano a mostrarsi tutti…sovranamente indifferenti, se non addirittura ostili. I Monsù dovettero mobilitare tutte la loro inventiva artistica per farlo accettare e la prima cosa che fecero fu tingerlo di rosso, visto che il pomodoro era già divenuto una specie di viatico per il Paradiso. Ma non fu sufficiente! I testardi partenopei seguitavano a chiamarlo nel loro colorito dialetto senza scrupoli “Sciacquapanza” e fu allora necessario scatenare veramente la fantasia per arricchirlo con ogni ben di Dio. Ne fecero una gran ciambella e, allo scopo di insaporire e guarnire, la riempirono e la coprirono a cupola, con le melanzane fritte, i pisellini e le polpettine al sugo. Le signore cinguettarono di gioia, di fronte a quella presentazione deliziosa, con tutte quelle prelibatezze “sour tout”, che, tuttavia, non riuscendo a ben pronunciare, ben presto trasformarono in “Sartù.” Il riso stavolta ce l’aveva fatta e fu solo l’inizio … perché poi sarebbero arrivati gli arancini e i supplì a far festa. Prima nelle tavole dei ricchi e poi in quelle di tutti, in una insolita ma felice metafora di eguaglianza gastronomica.
E allora, coraggio, divertiamoci anche noi a fare i Monsù per un giorno, e per Natale, prepariamoci il Sartù!
Cominciamo con il ragù, facendo soffriggere mezza cipolla a cui vanno aggiunte due salsicce che si fanno rosolare. Dopo si versa nel tegame 1 litro e mezzo di passata di pomodoro e il sale. Si copre il tegame e si fa cuocere per un’ora a fuoco basso.
Poi si rassodano due uova, si tagliano a spicchi e si mettono da parte.
Si tagliano due melanzane a fette piuttosto spesse e si fanno friggere in olio extra vergine di oliva, poi si scolano su carta assorbente e si mettono da parte.
Dopo aver messo a bagno, in acqua calda, 10 grammi di funghi porcini per 20 minuti, per farli “rinvenire,” si preparano le polpettine con 200 grammi di carne tritata, 30 grammi di parmigiano grattuggiato, un uovo e due fette di pancarrè sbriciolate, ammorbidite in un bicchiere di latte e strizzate, a cui era stata tolta la crosta in precedenza. Si formano delle polpettine non più grandi di una noce, si friggono in abbondante olio extra vergine e si mettono poi a scolare su carta assorbente.
In una padella si soffrigge mezza cipolla in cui si dorano 50 grammi di pancetta e si aggiungono 250 grammi di piselli e i funghi rinvenuti. Si fa cuocere tutto per 10 minuti e si mette da parte.
Passiamo alla cottura del riso facendo soffriggere, in una pentola, mezza cipolla tagliata a fette in olio extra vergine di oliva, poi si aggiungono 400 grammi di riso, si fanno tostare, si condisce con metà del ragù di carne e si copre di brodo. Lo facciamo cuocere per 10 minuti circa seguitando a ricoprirlo di brodo per non farlo bruciare. Dopo averlo tolto dal fuoco,abbastanza asciutto, aggiungiamo 50 grammi di parmigiano, facendolo mantecare.
Mentre si cuoce il riso, dal ragù si estraggono le due salsicce, si sminuzzano e si mettono da parte.
Prendiamo adesso uno stampo per ciambelle, imburriamolo e cospargiamolo di pane grattato, poi foderiamolo di riso sul fondo e sulle pareti e aggiungiamo metà dei piselli, delle polpette, delle salsicce, poi 150 grammi di mozzarella tagliata a dadini, 1 uovo sodo tagliato a strisce,1 melanzana tagliata a pezzetti e spolverizziamo con circa 50 grammi di parmigiano. Ricopriamo con il resto del riso che deve arrivare al bordo dello stampo, spolverizziamo con 100 grammi di parmigiano e il pangrattato e inforniamo per 25 minuti circa.
Estraiamo lo stampo dal forno e prima di rovesciarlo sul piatto di portata, passiamo la lama di un coltello all’interno dello stampo per staccare la forma di riso dallo stampo stesso. Quando è rovesciato sul piatto si stacca dal fondo con piccoli colpi ben assestati e si solleva lo stampo.
Prima di portare in tavola si cosparge in cima,” sour tout” il resto degli ingredianti, piselli, polpettine, salsicce, 100 grammi di mozzarella, l’ultima parte di ragù, 1 melanzana e 1 uovo a spicchi che, in parte scenderanno nel foro della ciambella e in parte resteranno posizionati in cima.
Il Sartù si porta in tavola intero a far bella mostra di sè e si taglia a spicchi in presenza degli ospiti. 8, secondo le dosi adoperate.