BISCOTTI VERDI AL THE MATCHA

0317patrick-irelandCelebre in tutto il mondo come Patrono d’Irlanda, in realtà San Patrizio era Inglese.  Se si vuole essere anche più precisi probabilmente era nato nel Somerset, ma non era  nemmeno del tutto  inglese perché, i suoi genitori, erano nobili Romani, trapiantati in quella lontana Provincia dell’Impero, dove avevano beni e poderi. Tutto alla sua nascita, nobiltà, razza padrona e benessere,  faceva prevedere una vita  tranquilla da signorotto di campagna, tipica, sin da allora, c’è da supporre, dello stile di vita inglese. E invece fu tutto diverso, perché il destino e l’imprevisto erano già in agguato, nella vita del giovane  Maewyin Succat.

L’origine di tutti i mali fu probabilmente quell’Impero Romano, parecchio vacillante, che  in Bretagna ormai era  più che altro di facciata, impegnato com’era, in realtà, a ritirare le sue legioni dal grande Nord, per  difendere i territori  vicini  a Roma, da quelle orde disperate di barbari che non la finivano più di arrivare dalle steppe  d’Oriente.

Per quanto lontane, le notizie della crisi dell’Impero, dovevano essere giunte alle orecchie anche di quelle incivili tribù di irlandesi che, in quattro e quattr’otto, abbandonati  gli attrezzi nei campi, si trasformarono in1026309_st-patrick feroci pirati e partirono subito per fare razzie in terra di Bretagna che, ai loro occhi ancora selvaggi, doveva sembrare la terra promessa, così ricca, così civile e così a portata di mano, anzi  di barca. La disgrazia del giovane  Maewyin  fu quella  di avere case e terreni a Bannaventa Berniae,  una località che doveva essere facilmente raggiungibile dalle coste di quegli avidi  predoni dell’Ovest.

Appena sbarcati, Maewyin e altri giovani amici furono fatti prigionieri, caricati sulle barche e poi venduti come schiavi nelle piazze dei villaggi irlandesi.  Aveva appena 16 anni, era di buona famiglia, sicuramente coccolato dai genitori  e ossequiato dai servi di casa, ma da un giorno all’altro  Maewyin si ritrovò a fare il guardiano di pecore nella solitudine  di una terra ostile e tanto diversa. Sicuramente si disperò, ma dato che era giovane, curioso e pieno di risorse, prese forza dalla sua fede cristiana e si mise a studiare quella strana lingua celtica, i costumi degli irlandesi e la loro religione così piena di magia e di divinità, di boschi e di fiumi.

Irlandesi-in-verde-per-la-festa-di-San-Patrizio_h_partbDopo sei anni riuscì a scappare, trovò una nave in partenza, ci salì sopra e finì in Gallia e come poi  sia tornato in  Bretagna non si sa, ma ci riuscì e riabbracciò i suoi genitori. Però oramai, lui e la sua vita erano cambiati e indietro non si torna. Così divenne monaco, girovagò per l’Europa, in Gallia, in Italia, forse incontrò anche il Papa, ma poi, a tutti i costi, volle tornare in Irlanda e divenne prima il grande predicatore e poi San Patrizio. Lui conosceva  quel popolo ed era diventato un po’ come loro. Sapeva, soprattutto, che non poteva portare all’improvviso un Dio sconosciuto a strappar loro, d’un tratto, il mondo incantato del sottobosco e tutte le  ninfe  d’acqua che proteggevano i fiumi e le fonti. Così  dette vita a un cristianesimo tutto particolare e legato ai cicli della terra. Qualcuno dice  che fu pagano, ma ufficialmente  fu chiamato Cristianesimo Celtico  e mescolò molti elementi cristiani con quelli dei Druidi, fondati sul mistero della natura, come ad esempio l’immagine  pagana del sole nella croce latina che divenne la “Croce Celtica. Quando poi dovette spiegare il mistero della Trinità non si sgomentò affatto. Con semplicità  raccolse un trifoglio e mostrò loro come, un unico stelo, unisse e sostenesse tre foglie, proprio come la divinità che si triplica, rimanendo unita.

Senza San Patrizio, “l’Apostolo Rustico” come definì se stesso, nella sua “Confessio”, senza quel colore verde e quel  piccolo trifoglio, non ci sarebbe mai  stata l’Irlanda! Oggi Shamrock è l’emblema nazionale e San Patrizio è un 5482749990_9320b33fc5_onSanto di tutto il mondo. Il 17 di Marzo è festa grande a Dublino, ma lo è anche in Canada, all’isola di Monserrat, in Italia, in Australia e negli Stati Uniti. A Montreal, hanno un trifoglio inserito  nella bandiera di città e sfilano come se, per un giorno, quella  fosse terra d’Irlanda. A Chicago tingono il fiume di verde e Boston ha voluto che San Patrizio proteggesse direttamente anche loro. A San Patrizio ci si veste di verde e quando si arriva a tavola, anche il cibo è tutto e solo verde. Poi a conclusione del pasto piccoli dolci come i “Biscotti verdi al the Matcha” sono il modo migliore per rendere onore alla grandezza e alla semplicità del Santo.

BISCOTTI VERDI AL THE MATCHA

INGREDIENTI:  215 grammi di farina tipo “00”, 100 grammi di zucchero a velo non vanigliato, 150 grammi di burro, 3 tuorli d’uovo, 2 cucchiai di the Matcha.

PREPARAZIONE:  Si mette la farina nel recipiente del Robot da cucina, unitamente al the e al burro freddo diviso a tocchetti. Si frulla per 10 secondi e poi si aggiungono i 3 tuorli d’uovo e  lo zucchero a velo. Si frulla ancora per 10 secondi, poi si raccoglie l’impasto fuori dal Robot e gli si dà la forma di una palla che si lascia riposare ben coperta in un panno, all’interno del frigorifero, per tutta la notte.

Il mattino seguente si stende la pasta con un mattarello, fino  a raggiungere lo spessore di 1/2 centimetro e si intagliano, sulla sua superficie, i biscotti, con lo stampino rigorosamente a forma di trifoglio, facilissimo da trovare… in Irlanda.

Si dispongono i biscotti su carta da forno ben distanziati fra di loro e si cuociono in forno già pre-riscaldato a  180°C, per 15 minuti circa o fino a quando i bordi cominciano a colorarsi. Si servono freddi.

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Muffins alla Feta

myth_uranusSarà anche una grande istituzione la famiglia, ma quando non funziona…  sono guai seri. Anche nell’antichità le cose, spesso, non andavano meglio di oggi e se c’è stata una brutta famiglia, sicuramente è quella che vide, in successione, il nonno Urano, il figlio Kronos e il nipotino Zeus. La causa scatenante fu sicuramente la lotta per il potere, ma questo non giustifica il fatto che Urano sprofondasse i suoi figli, i Titani, nel Tartaro, cioè al centro della Terra, senza possibilità alcuna di risalita. Gea, cuore di mamma,  ci soffrì moltissimo e appena Kronos, figlio risparmiato dal padre, perchè sembrava poco pericoloso, diventò grande, ricevette in dono dalla mamma una  grande falce. Urano, a parte i suoi difetti di padre, era uno che  durante il giorno lavorava sodo per  far girare nel verso giusto e senza farli scontrare, fra di loro, tutte le stelle e i pianeti di quell’immensa volta celeste. Così la sera, accadeva spesso, che  cercasse, vicino a Gea, la ricompensa d’amore per il  gran lavoro svolto. Fu proprio in uno di quei frangenti, mentre, per logica di cose, era più esposto e indifeso, che Kronos d’accordo con la mamma, lo evirò. Poi liberò i Titani e rubò il trono a Urano. Ma anche  Kronos tremava all’idea che qualcuno glielo potesse portar via e così, dopo aver sposato Rea, prese la pessima abitudine di mangiarsi tutti i figli che la moglie partoriva. La povera Rea riuscì a salvare l’ultimo nato andando a partorire di corsa sul Monte Ida e affidando il bambino alle Ninfe. A Kronos, in sostituzione, fece mangiare una pietra ricoperta di stracci.

Sul Monte Ida, Zeus si trovò benissimo, coccolato da tutte le Ninfe e allevato in modo speciale da Amaltea, un po’ Ninfa e Zeus_Amalteaun po’ Capra, che lo allattò con quel suo latte, doc per eccellenza, che gli permise di diventare un grande Dio.

Quando fu appena un p0′ cresciuto la, mamma, che soffriva di nostalgia, se lo andò a riprendere e lo fece assumere come coppiere da Kronos, per tenerlo vicino. Fu così che una sera fecero bere a Kronos, che cominciava a essere un po’ rimbambito per l’età, una bevanda piena di sale che funzionò da emetico e fece vomitare  al padre tutti e 5 i figli che si era ingoiato, quelli che poi sarebbero diventati i grandi Dei dell’Olimpo che tutti conosciamo, Era, Poseidone, Demetra, Ade ed Estia. Kronos, da tutta quella gioventù in rivolta, fu cacciato e spedito su un’isola molto lontana, sembra in Bretagna, ed è là dove dovrebbe ancora essere, tutto solo e mezzo morto di freddo.

Anche la Capra Amaltea ebbe un po’ di problemi perchè un giorno andò a sbattere contro un albero, sembra per sfuggire a Kronos che la voleva punire per aver allevato Zeus. Fu lì che perdette uno dei suoi bellissimi corni ricurvi che erano oggetto di meraviglia e invidia di tutte le altre capre. Per consolarla Zeus  in suo onore fece, di quel corno pieno di fiori e frutta, “la Cornucopia,” il dono  tutto speciale che ricopre la terra di fertilità e abbondanza. Poi visto che Amaltea, comunque non riusciva a  riprendersi, se la portò in cielo e le regalò un’intera Costellazione, il Capricorno.

capricorno3Ma sulla Terra era rimasto il suo latte, che i Greci utilizzano sapendo che è il migliore del mondo e, a volte lo bevono da solo, a volte lievita come yogurt, a volte si trasforma in formaggio. Anche il più famoso dei formaggi greci, quello che ha fatto il giro del mondo, ha una parte di latte di capra o è fatto esclusivamente con latte di capra: è la “Feta”, un formaggio magro, appena un p0′ acido e di un color bianco quasi abbagliante, che ricorda subito, appena lo si guarda, il candido latte di Amaltea. Pare che sia proprio lo stesso formaggio che Ulisse e i suoi compagni trovarono nella grotta di Polifemo.

Inutile provare a copiarlo. Occorre il latte delle agili capre greche, che balzano fra i monti scoscesi, in cerca di quelle magiche erbette che  solo da quelle parti, oggi, escono ancora dalla Cornucopia di Zeus.

A parte l’Insalata Greca, ormai celebrata in tutto il mondo, un modo originale per adoperare la Feta è quello di prepararci dei deliziosi Muffins salati.

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INGREDIENTI: Burro 90 grammi, Farina 300 grammi, Feta 150 grammi, Latte 200 ml, Lievito in polvere una bustina, Panna fresca 100 ml, 1 Porro, Salmone affumicato 100 grammi, 2 Uova,  Yogurt greco 100 grammi.

ESECUZIONE: Si affetta il porro a velo, si tagliano la Feta e il Salmone  in piccoli pezzi, si fonde il burro in un pentolino a fiamma bassa e si fa intiepidire.

Si rompono le uova in una ciotola dove si versa anche il latte, la panna e lo yogurt e si sbatte con la frusta per amalgamare gli ingredienti.

In un altra ciotola si versa la farina, passata al setaccio per evitare i grumi, il lievito, il porro, la feta e il salmone mescolando a lungo.Si aggiunge infine il burro fuso e il composto di latte e uova, regolando di sale e pepe.

Si prende ora uno stampo di silicone o di acciaio con le  apposite “conche” per inserire i pirottini, al cui interno verrà versata una cucchiaiata dell’impasto.

Si fanno cuocere in forno a 180° per 25 – 30 minuti finché non siano dorati. Alla prova dello stecchino, questo si deve estrarre asciutto dallo stampo .

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Aragosta all’Armoricana

lull-between-two-storms-stone-circle-and-menhir-Dartmoor-Forest-Devon-United-Kingdom-400x600Dalle steppe dell’Asia attraverso l’Europa. Secoli di cammino e poi, di fronte all’Atlantico, fini la lunga marcia dei Celti. Allora, con molto senso pratico, chiamarono  il luogo “Armor”, che significava “Sul Mare,” anche per distinguerlo da quello che si erano appena lasciato alle  spalle, l”Argoat,” che  significava “Terra”. Questo succedeva tanto tempo fa, pressappoco nel 6° secolo a.C., quando i  i Celti  finirono per  insediarsi stabilmente nella terra dei Dolmen e degli alti Menhir. Passarono altri secoli e anche lì, come dappertutto, arrivarono i Romani  e, nonostante il valore di Obelix e di  Asterix, non fu  assolutamente possibile fermarli. Era  infatti il 56 a.C. quando Cesare sconfisse in una  terribile battaglia navale i Veneti, il gruppo  celtico più potente di tutta la penisola e impose la pax romana, aggregando l’Armorica  alla Gallia Lugdunensis  e  finendo così per toglierle la sua identità. Poi, mentre cadeva l’impero romano,  arrivarono i Celti Britanni, che scappavano dagli invasori danesi che traversavano a frotte la Manica.images

Fu così che il territorio armoricano, che, fra alterne vicende, era riuscito a conservare il suo nome, finì per chiamarsi Bretagna, mentre le popolazioni si fondevano fra di loro e la  lingua dei nuovi arrivati, il celtico bretone prendeva il sopravvento sul gallico. Oggi, insieme, i discendenti Celti, delle diverse etnie, lottano per salvare, dall’oblio e dalla dimenticanza, la lingua bretone, ultimo vessillo di una comune origine millenaria.  Nonostante tutto sono riusciti a  imporsi e ottenere  il bilinguismo ufficiale per questa punta di terra protesa nell’Atlantico, che non si vuole arrendere alla globalizzazione. Questa strana regione, dalle coste e dalle  brughiere selvagge, rimase, per  lungo tempo, una povera terra di contadini e di pescatori, abbastanza isolata dal resto della Francia, finchè  nel  1886  arrivò  Paul Gauguin  col gruppo dei pittori della Scuola di Pont Aven. La Bretagna allora cominciò a riflettersi nelle grandi superfici luminose, contornate di scuro dei loro quadri che  sembravano smalti e vetrate medievali, piuttosto che dipinti a olio. Fu per tutti una grande scoperta e una corsa che, da allora, non ha più conosciuto sosta. C’è tanto da fare e vedere in Bretagna…  I misteriosi monumenti megalitici di decine di migliaia di anni fa, che parlano ancora  di astronomia  e sovrannaturale, i luoghi dove nacque la leggenda di Re Artù, le cittadine di pietra scura tutte racchiuse in se stesse, i paesaggi contadini e  il mare. Quel mare dalle mille sorprese, dai ripidi scogli e dalle deliziose cale, quel mare così ricco  di risorse che ha  fatto degli armoricani un popolo di grandi marinai e di abilissimi pescatori. C’è di tutto, dai grandi merluzzi alle sogliole alle trote, dai pesci di passo al largo della coste ai crostacei e ai molluschi che si alimentano nelle grandi maree mentre il mare arriva e si ritrae fino a 40 metri. Bretagna è il paese delle ostriche,  quellle ostriche di Cancale piatte e allungate, che già i Romani non si facevano mancare sulle loro tavole, Bretagna è il paese delle aragoste, come quelle celebrate di  Douarnenez, così famose e così a portata di mano, che la mattina, se vi alzate presto, le trovate di sicuro al mercato. Molluschi e aragoste, con cui si preparano favolosi crudi e uno dei piatti più celebrati di tutto il mondo, l”Aragosta all’Armoricana” che, nel nome, ripropone  fieramente la tradizione di un popolo che non vuole dimenticare le sue origini. Vale la pena,  almeno una volta, provare a  prepararla e cominciare a  godere  dei suoi profumi sottili e  raffinati, già mentre cuoce sul fuoco. In 4  servono tre aragoste, grandi e belle come quelle di Douarnenez. Dopo aver scartato  testa e zampe, tagliatele a fette piuttosto alte, conservando attaccato il carapace. Poi  fatele saltare in una grande padella in mezzo a 6 cucchiai di olio e 50 grammi di burro.img_7590edited0910

Appena sono colorite, ma attenzione a non bruciarle, profumatele con un bicchiere di cognac, da far evaporare a fuoco vivo. Fatto questo  spostate i pezzi di aragoste, temporaneamente, su un   piatto di servizio. Adesso, nella padella, aggiungete 6 scalogni e due spicchi d’aglio tritati, una carota piccola  tagliata sottilmente e 50 grammi di sedano rapa. Fateli tutti ammorbidire adagio, a fuoco basso, finché non abbiano ceduto tutto l’aroma, mentre ogni tanto li bagnate con vino bianco tipo chardonnay. E’ arrivato   il momento di aggiungere il pomodoro, circa duecento grammi,  da far insaporire almeno 10 minuti e senza alzare troppo la fiamma. Adesso le aragoste  riprendono il loro posto in padella spruzzate di pepe di Cayenna, peperoncino in polvere, sale e tanto prezzemolo tritato. Ancora 20 minuti di cottura e, se occorre,  si può aggiungere un po’ di acqua calda. Alla fine togliete nuovamente le aragoste dalla padella, poggiatele sul piatto da portata e ospitatele nel forno caldo, ma spento. Frullate la salsa rimasta nella padella, aggiungendo un cucchiaio di burro e mezzo bicchiere di panna. E’ solo al momento di portare in tavola che estrarrete le aragoste, tenute in caldo nel forno e le cospargerete della  loro salsa e di  prezzemolo fresco tritato. Volendo si può aggiungere del riso pilaff, cotto al dente e messo a seccare in forno  a 160° su carta unta di burro e poi premuto in piccoli stampi che si rovesceranno vicino all’aragosta. Ci si può contornare il piatto di portata o servirli  in tavola, direttamente nei singoli piatti.

Qualche variante? Si può sostituire l’aragosta con gli scampi. In Bretagna ci sono anche loro e la ricetta rimane di altissima  qualità. Qualcuno, invece, aggiunge i gamberi all’aragosta. Si può, ma alla condizione di non cuocerli più di 5 minuti, altrimenti  induriscono. Quindi va bene una sfiammata iniziale  per poi rimetterli nel sugo negli ultimi 5  minuti in cui  si finisce di cuocere  l’aragosta.

Una curiosità ?  Qualcuno ha osato chiamarla “Aragosta all’Americana” e, negli Usa, qualche volta  giocano sull’equivoco, tanto è vero che hanno persino provato a copiare la ricetta, semplificandola, con modesti risultati. In realtà tutto nacque  dalla  disattenzione di uno Chef parigino, che, forse sbagliò perché,  povero lui, non conosceva l’Armorica.

Ciao… spero di incontrarvi  in Bretagna!

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