Spaghetti con le polpettine… Un ricordo quasi western per Sergio Leone!

“Ecco, – ragionava fra sé e sé – il Puparo… Lui deve muovere i fili dei “pupi” e farli parlare… Sono tutte storie vere quelle che racconta e  il re e i paladini sono sempre  gli stessi… Carlo Magno, Ruggero,Orlando. Ma non può raccontare sempre  la stessa storia.. Quando cambia paese, deve adattare i suoi personaggi alla realtà dei luoghi, al modo di parlare, alle tradizioni del posto… Altrimenti non lo capirebbero…”

E questa fu di sicuro la più importante e la più originale delle intuizioni  di Sergio Leone, quando cominciò a girare il suo primo film western. La storia invece non era affatto originale e lui non ne fece mai mistero tanto che fini per accorgersene anche Akira  Kurosawa che lo accusò di avergli saccheggiato a piene mani “La Sfida del Samurai”… “E’ plagio” – disse – e pretese un mucchio di soldi… Probabilmente a Leone non rimase nemmeno … Un pugno di dollari.

A Kurosawa dunque  rubò la storia, agli americani il genere, eppure ne usci fuori qualcosa di assolutamente nuovo.  Il western per la verità, dopo anni di assoluto dominio, aveva cominciato a tirare un po’ le cuoia, ma, di questo, se ne erano resi conto in pochi e i produttori italiani  proprio allora si erano invece messi in testa di rifarlo in casa e a basso costo. Fortunatamente né Leone, né lo sparuto drappello di quelli che avevano cominciato appena prima di lui, avevano preso troppo sul serio i miti e i personaggi del grande Western, con le figure a tutto tondo e il bene e il male così nettamente assegnati e divisi…Se, per gli americani, il West era epopea, storia, leggenda… gli italiani  poco ci credevano… e quei personaggi che si inventò Sergio Leone, dai vestiti stazzonati e la barba incolta, meglio si adattavano ai posti desolati e selvaggi della frontiera. D’altro canto non sono neanche eroi e qualche trasandatezza gli è più facilmente consentita… Si può forse parlare di antieroi  un pò cinici, pessimisti e con una morale più orientata ai soldi che agli ideali… Parlano anche poco e e quando lo fanno il loro linguaggio è aspro e, quando vogliono essere ironici, il loro humor è profondamente nero ” Niente vecchio, non mi tornavano i conti” dice Clint Easwood per spiegare l’uccisione  dell’ultimo nemico, che si era nascosto ferito..

Ma dove Leone finì per lasciare un segno indelebile, che ancora  lascia stupiti e ammirati, fu nelle tecniche di ripresa. Quando Tarantino dice oggi al suo operatore “Dammi un Leone” intende il “mascherino” rettangolare da 1 x 2,30 che va a contrastare  tutte le classiche inquadrature, articolate sullo standard quasi quadrato di 1 x 1,33.  Ma questo consentì a Sergio Leone di fare primi piani dove a essere inquadrati sono solo gli occhi e un lembo di cappello, con quelle tese importanti  e quasi rigide… Arriva a tenere l’inquadratura anche 28 secondi  quando vuole il carico massimo sulla suspense o l’attesa del peggio! Poi con una cura quasi da collezionista maniaco va a riprendere tutti gli oggetti cult del west, speroni, pistole, ruote dei carri, fino alle facciate shingle e allineate delle case dei pionieri. Un atto d’amore calligrafico, un’enfasi ironica, l’anticipazione del Museo che verrà…  Con quella musica quasi preda di un sortilegio a volte onirica a volte rauca e dissonante… Ennio Morricone l’accompagnerà in tutto il percorso…

Nel western a un certo punto arriva la sparatoria, il duello a volte è solo finale a volte ripetuto a cadenze ritmiche, ma è sempre stato un momento clou a effetto sicuro. Sergio Leone ne fa un rito complesso e del tutto nuovo avvalendosi, di un attore come Clint Eastwood, dalle movenze come quelle dei gatti, ora pigre e lente, ora scattanti e fulminee. Fece del duello uno spettacolo nello spettacolo, ambiguamente giocato fra accelerazioni e ralenti…  Momenti esasperati in cui la mano sembra non arrivare mai alla pistola o la distanza fra i duellanti non diminuire…  Sino alla drammatica repentina traiettoria dello sparo e la successiva ripresa del ralenti negli spasimi iperrealistici dell’agonizzante, che sembra non toccare più terra…  Clint Eastwood ha raccontato che Leone non conosceva il Codice Hais, quello che regolava la pudica morale del cinema hollywoodiano e vietava fra l’altro la rappresentazione troppo esplicita degli omicidi, per cui  lo violava allegramente e riprendeva nello stesso fotogramma, la pallottola che parte, la pistola che fa fuoco e la persona che cade. E questo non era mai successo prima.

Il poncho di Clint Eastwood… Quando mai il protagonista yankee avrebbe portato un abbigliamento tipico solo dei personaggi  secondari di lingua spagnola e solo nei western ambientati alla frontiera messicana? E dove sono finiti gli indiani? Nei film di Leone non c’è più traccia … Forse fu anche per questo che l’arrivo negli Stati Uniti dei film suonò all’inizio come un anatema, riassunto in quella frase di disprezzo che fu “Spaghetti Western”…Ma dopo l’iniziale diffidenza e l’accoglienza sempre più favorevole del pubblico, la critica cominciò a riflettere e i produttori di Hollywood anche. I western americani non furono più gli stessi a partire dagli anni ’70… I nativi finalmente furono riconosciuti vittime e non selvaggi violenti, il buono e il cattivo si sfumarono fra di loro e la legge del più forte entrò in discussione… L’America fini per guadagnarci “Il  mucchio Selvaggio” di Sam Peckimpah o “Il Piccolo Grande Uomo” di Arthur Penn … E salvò il suo western per ancora molti anni a venire.

Sergio Leone aveva paura a proseguire, l’inaspettato successo l’aveva spaventato.. E invece anche il secondo film  “Per qualche dollaro in più”  agì da moltiplicatore con il disincantato personaggio che va in cerca dei criminali, solo per soldi, “Il cacciatore di taglie” appunto, dove Clint Eastwood è di nuovo lì con le sua beffarda caratterizzazione dell’uomo che non adopera mai la mano destra… perchè gli serve solo per sparare mentre il nuovo comprimario Lee Van Cleef, scelto perché somigliava con quegli ambigui. sottili  occhi a un’immagine di Van Gogh,  riesce a dare un’ immagine fredda e razionale del sorprendente e astuto cacciatore di taglie anziano…Un film ricco di tragedie e vendette di sapore shakespeariano. Il terzo film. “Il buono, il brutto, il cattivo” forse è il più bello di tutti e tre, con una regia sempre più ricca di simboli ormai saccheggiati senza paura alla storia americana.

Ma l’ultimo film della trilogia è paradossalmente  il quarto, “C’era una volta il West,” quello in cui Leone  vuole chiudere  la sua epopea, la sua incursione insolita nella storia americana, con un film che celebra la fine della  frontiera, l’avvento  della ferrovia, in una lunga violenta e visionaria riflessione sul mito del West…  Che darà poi inizio  all’America protagonista tecnologica dello scenario mondiale … Nasce l’ultimo capolavoro con Henry Fonda e Claudia Cardinale, poco capito proprio in America…E sembrava l’ultimo regalo al Mondo Nuovo di un autore apparentemente estraneo, che però quel paese l’aveva capito, come pochi altri, nei suoi aspetti forse più crudi ma anche più veri…

Dopo, altri film che l’avevano estraniato dall’America e portato in tante altre direzione… Come se si volesse dimenticare degli “Spaghetti Western. Ma l’ultimo film “C’era una volta  in America,”  quasi per un destino e come un simbolo della sua vita, lo riporta  in un’altro pezzo di storia Americana… Ma  comunque  “C’era una volta in America” è tutta un’altra cosa…

Per dimenticare un attimo di tristezza e le incomprensioni degli ultimi film “americani” di Sergio Leone, forse l’unico modo è festeggiarlo con una ricetta che  ci fa immediatamente riassaporare gli anni dei suoi migliori successi, con il suo titolo così allusivo proprio all’epopea degli “Spaghetti Western”:

SPAGHETTI CON LE POLPETTINE

INGREDIENTI per 4 persone: Spaghetti 320 grammi, passata di pomodori 750 ml, mezza cipolla, 1 spicchio di aglio, 100 grammi di salsiccia di suino, 50 grammi di mortadella, carne di suino tritata 100 grammi, mollica di pane raffermo 30 grammi, i bicchiere di latte, 50 grammi di parmigiano grattugiato, 2 cucchiai di prezzemolo tritato, 1/2 di cucchiaino di noce moscata, pepe e sale a piacere,olio extra vergine di oliva 3 cucchiai, 1 uovo.

Cominciate la ricetta preparando le polpettine. Mettete in una ciotola la carne trita, la salsiccia privata della pelle, la mortadella tagliata a pezzetti e procedete con il mixer, quindi una volta ben amalgamati impastateli anche con le mani e aggiungete la mollica di pane raffermo precedentemente immersa nel latte e strizzata, il parmigiano, il prezzemolo, l’uovo, il sale, il pepe e la noce moscata. Impastate nuovamente gli ingredienti e lasciate riposare per circa 15 minuti. Nel frattempo tritate aglio e cipolla e fateli dorare nell’olio a fiamma dolce poi aggiungete il pomodoro e portate a bollole. Formate con l’impasto delle polpettine di circa 10 grammi l’una e non appena il sugo è leggermente ristretto immergetele e fate cuocere per circa 40 minuti a fiamma bassa. Mettete a bollire una pentola con acqua che salerete appena raggiunto il bollore e lessateci gli spaghetti da scolare al dente. Conditeli con le polpette e il sugo e portate in tavola caldi.

TERRA D’UNGHERIA: IL GULASCH!

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c6-charlemagne3Terra di tutte le brame e di tutte le conquiste! E non poteva essere altrimenti così incastrata fra Oriente e Occidente e così a portata di mano anche dei Turchi, sempre di casa  nella Penisola Balcanica. Qualche secolo di pace l’Ungheria lo aveva avuto prima, durante l’Impero Romano, quando ancora si chiamava Pannonia… Poi fu un continuo passare di eserciti, di nomadi e di guerre. Qualcuno si fermò, come gli Avari, poi li scacciò, poco primsa dell’800, Carlo Magno, con la benedizione del Sacro Romano Impero. Si poteva pensare anche  a una pace ritrovata, ma ci pensarono i suoi imbelli eredi a lasciare l’Ungheria in balia delle nuove orde che arrivavano dall’Est. Da parecchi secoli gli Ungari, coi loro cavalli, stavano attraversando le steppe orientali e quando arrivarono in Ungheria, ed era la fine del secolo X, finirono per restarci. Difficile stabilire se erano soli o mischiati a tribù turche, tanto inestricabili sono i rapporti e le etnie in quella terra di tutte le frontiere. In ogni caso dettero il loro nome al territorio, 779px-Matthias_Corvinus_-_Rubensunificarono le tribù sparse sotto la tribù dei Magiari, che era la più importante e, un po’ per volta, sostituirono al latino la loro impossibile lingua ugro finnica, che fece dell’Ungheria un fenomeno anomalo e un luogo di difficile comunicazione fra le lingue slave e neo latine che la circondavano. Ma, dopo secoli di disordine senza identità, stava comunque nascendo una Nazione che, per i quattro secoli a venire e fino allo splendido rinascimento di Mattia Corvino, fece sentire alta la sua voce in Europa. Dopo si sa, arrivarono i Turchi, la spartizione della Nazione, gli Asburgo, più efficienti ma non migliori dei Turchi e, sino alla fine del secolo XX , parlare di indipendenza… fu sempre un discorso difficile.

Ma nonostante tutte le lotte politiche, i cambi di regime e gli stranieri in casa, L’Ungheria  sempre ha mantenuto alto il suo nome e i suoi caratteri di eccellenza con il vino, l’allevamento dei bovini e i cavalli. E non è cosa da poco soprattutto oggi che, l’intera qualità della vita, è ripensata sul livello dei prodotti della terra. Che dire del Tocai, il vino a cui tutti si inchinano? E della tradizione equestre che arriva, diretta diretta dai magiari  che 1000 anni fa  invasero l’Ungheria? Lì  infatti trovarono la grande distesa della Puszta e l’ambiente  da favola per i cavalli e per i loro cavalieri. Per secoli i magiari mantennero la loro razza di velocissimi cavalli in purezza, ma anche quando ci fu l’incrocio con i destrieri turchi prima e con quelli andalusi dopo, furono comunque grandi successi che sparsero in tutta Europa e in parte dell’Asia, la fama dei cavalli Ungheresi. L’altra faccia, altrettanto famosa di questa tradizione, sono i cavalieri, i fantastici “Csikos”, che, a cavallo traversavano i grandi pascoli per allevare la razza dei bovini conosciuta come la “Grigia Ungherese”. Una razza apprezzata come animale da lavoro, resistente, frugale, adatta ai climi difficili, con grande attitudine materna e facilità di parto. Agli inizi del XX secolo stava quasi Una-mucca-grigia-ungherese-davanti-al-Parlamento-di-Budapest-protesta-di-Greenpeace-contro-gli-OGM_gal_portraitper scomparire, ma negli anni ’60, con un salvataggio quasi in extremis è tornata a crescere e a moltiplicarsi. Sarebbe stato un vero peccato perderla perchè, per secoli i  Csikos, giravano l’Europa intera per condurre le mandrie, fino in Moravia, a Vienna, Norimberga, Augusta e Venezia. Erano  i luoghi  più ricchi e mangiavano solo quella carne di  eccezionale qualità, tanto che negli archivi storici di Augusta si sono persino ritrovati atti amministrativi in cui si fa divieto di commerciare in città carni diverse dalla Grigia Ungherese, perchè nessun altro tipo era degno di comparire sulle mense della grande borghesia tedesca. Altro che i Cowboys mitizzati dal cinema americano! I veri grandi cavalieri sono stati i Csikos capaci di attraversare l’intera Europa  scegliendo solo quei percorsi  dove le erbe erano particolarmente buone, per non rovinare, nel tragitto, la carne dei loro bovini.

Poichè rimanevano tanto tempo lontani i Csikos si preparavano un’ abbondante zuppa con la carne della Grigia tagliata  a pezzi, cui veniva aggiunta la cipolla. Poi veniva cotta in un paiolo sopra un fuoco di legna, nei luoghi dei pascoli. A cottura ultimata la zuppa era quasi completamente asciugata e si stendeva sulle tavole di legno per farla essiccare completamente. Questo era il modo più idoneo per pertarsela a pezzi nelle bisacce, nei pascoli più lontani della Puszta o soprattutto, nei lunghi viaggi all’estero.  Bastava immergerne un pezzo nell’acqua bollente e poi aggiungerci qualche erba, che si poteva reperire più facilmente  durante il cammino.

Inventiva, fantasia, spirito di adattamento e una materia prima eccezionale! I Csikos avevano inventato il “Gulyas”, che in ungherese non a caso significa  mandria e che più tardi, arricchito e corretto, soprattutto con la paprika, finì sulle tavole dei ricchi signori  e dei  migliori ristoranti del mondo, col nome di Gulasch.

RICETTA DEL GULASCH

INGREDIENTI per 6 persone: 1 kg di spezzatino di manzo, 1 cipolla, 2 carote, 1 costa di sedano, 2 patate, 1 bicchiere di vino rosso, 100 ml di passata di pomodoro, 500 ml di milhojas 007brodo di carne, 1 cucchiaio di paprika, 50 ml di olio extra vergine di oliva, 30 gr. di farina 00, sale.

PREPARAZIONE: infarinare i pezzi di carne, far appassire la cipolla tagliata a velo nell’olio, aggiungere i pezzi di carne infarinati, farli rosolare per alcuni minuti e sfumarli infine con il vino rosso. Ricoprire lo spezzatino con il brodo di carne, coprire e far cuocere a fiamma bassa almeno per un’ora.

Sbucciare patate e carote, tagliarle a pezzi e aggiungerle, assieme alla costa di sedano, alla passata di pomodoro e alla paprika, allo spezzatino.

Mescolare, salare e far cuocere almeno per altri 40 minuti o comunque fino a quando la carne non sia sufficientemente tenera, seguitando ad aggiungere brodo caldo per evitare che in cottura la carne secchi o bruci.

Se la carne richiedesse tempi più lunghi di cottura, è opportuno togliere dal  tegame le patate e le carote appena cotte, per evitare che si sfaldino. Si riuniranno allo spezzatino al termine di cottura prima di versarlo nei piatti, preferibilmente di terracotta, che mantengono più a lungo il caldo.

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