A Comacchio: Riso all’Anguilla!

image.phpQuando  sta per arrivare  al mare, il Po perde la sua identità di grande e solenne  fiume e diventa un  groviglio di canali e di paludi dove quasi a perdita d’occhio, affiorano isole e isolotti ricoperte di canne. Ci pensarono gli abili mercanti  Etruschi  circa 500 anni prima di Cristo a insediarsi nella zona. Una questione di convenienza, perchè i commerci con la Grecia erano molto  più rapidi dall’Adriatico piuttosto che dal Tirreno. La città  famosa era Spina, su cui  però fiorirono presto le leggende perchè si interrò e eelse ne persero le tracce, fino a pochi decenni fa. Comacchio era più piccola e meno importante, ma riuscì a difendere dalle acque e dagli uomini quelle 13 isolette unite dai ponticelli, che sono tutta la sua essenza ormai millenaria.  Nonostante la caduta dell’Impero Romano, sino al secolo IX se la cavò benissimo  con i Longobardi e  il commercio del sale, di cui il mare gli riempiva le terre, penetrando nei mille anfratti della laguna.  Ma non aveva fatto i conti con Venezia, una rivale emergente, anch’essa, dalle acque  e troppo gelosa della flotta di Comacchio per lasciarla in pace. Così distrussero la città parecchie volte, ma Comacchio miracolosamente tornava a vivere perché oltre le saline aveva un’altra risorsa, l’Anguilla, una pesca miracolosa!

Stranissimo destino quella dell’Anguilla! Un’animale dalle grandi avventure marine di cui nessuno è riuscito a capire la  commovente e misteriosa vicenda. Sono  ancora  piccole larve, quando lasciano, senza girarsi nemmeno una volta indietro, le calde acque del Mar dei Sargassi dove sono nate e, come una tribù nomade in cerca della terra promessa, traversano tutto l’Oceano Atlantico e si vanno a infilare nelle nebbie  umide della Val Padana. Li nelle acque  di Comacchio trascorrono l’ adolescenza e la prima giovinezza, poi dopo quasi 15 anni se ne rivanno e col loro istinto infallibile lasciano il casoni-di-valleMediterraneo e tornano a ritroso nel mar dei Sargassi. Solo li si  accoppiano, si riproducono e, quasi subito, muoiono.

Ma solo una parte ce la fa a uscire dalla palude perchè  la gente della Valle ha da secoli bisogno dell’anguilla per sopravvivere e ha inventato  trappole di straordinaria efficacia per impigliarle e catturarle, proprio nel momento in cui raggiunta la maturità e pronte per la fuga hanno carni sode e saporitissime. Si chiama “lavoriero”  quell’insolita freccia di pali e canne affondata nella laguna che caratterizza  con le sue forme triangolari tutto il paesaggio, studiata per far entrare i  pesci ma impedir loro di andarsene.  Ce ne ha lasciato  una vivacissima descrizione  il Tasso nella “Gerusalemme Liberata” “Come il pesce colà dove impaluda/ nei seni di Comacchio il nostro Mare/ fugge da l’onda impetuosa e cruda/ cercando in placide acque riparare/ e vien che da se stesso ei si rinchiuda/ in palustre prigion né può tornare/ che quel serraglio é con mirabil uso/ sempre all’entrare aperto, a l’uscir chiuso.”

Poi la storia per Comacchio si fa drammatica alla fine del 13° secolo quando passa sotto il dominio della Casa Estense. Pochi decenni dopo  i comacchiesi non sono più liberi di pescare perchè gli Estensi si valli.comacchio-800prendono il Monopolio. Qualcuno lavora per loro come “Vallante”, ma  la maggior parte viene esclusa. C’erano poche alternative. O morirsi di fame o pescare di frodo E così fu. Le cose non cambiarono di un centimetro nemmeno quando il Ducato degli Estensi alla fine del 16° secolo passò in proprietà dello Stato della Chiesa e lì ci rimase fino all’Unità d’Italia del 1860. Monopolio era e monopolio rimase. Ma il pescatore di frodo,” Il Fiocinino,” è rimasta una figura mitica, un personaggio sfuggente, che nell’oscurità della notte e della nebbia, pescava con la sua barchetta leggerissima, soprannominata “saltafossi” che, in caso di guardie in vista, si caricava sulle spalle e passava da un argine all’altro, nascondendosi fra le canne e l’erba. Ci sono pochi mesi freddi  per pescare l’anguilla e il “Fiocinino” esce quando il tempo è  più brutto perchè è il momento in cui le anguille escono dal fango in cerca del mare aperto.Poi la mattina, ” il Fiocinino” quando torna in paese, spesso deve dividere  la pesca col Grisolino, l’addetto al lavoriero, che gli ha lasciato … qualche falla aperta. Spesso lo catturano le guardie inviate dal monopolio e sono guai.Il “Fiocinino” finisce  spesso in prigione. Per fortuna qualche volta i sorveglianti chiudono un ‘occhio, anzi tutti e due perchè di notte il pescatore di frodo esce dal carcere, pesca, vende le anguille e torna in carcere sul far dell’alba.

Ma non era partcolarmente facile la vita nemmeno per il Vallante, quello che lavorava “in regola ” per il Consorzio. Per quei mesi invernali in cui  si pescava andavano a vivere in comunità nei “casoni,” quei bassi  rettangoli rossastri dall’alto camino, appoggiati sugli isolotti sperduti, che oggi i turisti  vanno a visitare come esempi di archeologia industriale. Stavano  lì in mezzo al freddo e all’umido con turni di circa un mese e quando tornavano a casa erano talmente abbrutiti che si fermavano  prima  in un isolotto  da quelle  parti, che spiritosamente chiamavano “Fattibello” dove c’era acqua e barbiere per 0063_BZ_030rimettersi un po’ in sesto.

Che fine faceva la grande pesca del  Monopolio? Una parte  veniva caricata su barche con doppiofondo pieno d’acqua e, ancora vive, le anguille  arrivavano nei porti dell’adriatico e del Tirreno, anche fino a getp.cgiNapoli.Il resto,veniva portato a Comacchio nella grande “Sala del fuoco” dove le anguille venivano selezionate, tagliate a pezzi e infilzate in lunghi spiedi sospesi a un girarrosto che ne sosteneva sino a 12. A cottura ultimata, disposte in barili con una speciale salamoia erano pronte per la distribuzine.Oggi adoperano anche scatole di latta di piccole dimensioni ,ma  la tecnica della conservazione a Comacchio è perfetta da parecchi secoli. Per il resto dell’anguilla non si buttava niente. Il grasso che colava durante la cottura veniva raccolto e serviva per l’illuminazione,  la pelle essiccata serviva fer fare lacci alle scarpe, le teste e le code restavano alle famiglie dei fiocinini, le trippe d’anguilla erano una prelibatezza e le lische del pesce si mangiavano fritte e croccanti.

Cos’è rimasto oggi di quel mondo ancestrale? Una vita più umana per i pescatori e un’industria conserviera, che con poche innovazioni distribuisce in tutto il mondo. Un paesaggio che ha del miracoloso  nella sua varietà e nella sua dolcezza infinita, con i casoni che fanno la guardia  al territorio e gli uccelli, ancora 300 speci che qui svernano o ci restano anche tutto l’anno come i fenicoiteri.

Poi ci sono le memorie, quella di Garibaldi  che sfugge agli sbirri del Papa e si rifugia nella palude con la moglie morente, quelle dell’Agnese, la partigiana del romanzo autobiografico di Renata Viganò, che in uno dei casoni aveva casa,  i drammatici  personaggi   di “Ossessione” e ” Il Grido”, i film che quì  girò Michelangelo Antonioni  nel grigio inverno della laguna e,  infine a contrasto, la prorompente bellezza di  una giovanissima  Sofia Loren che ne “La Donna del Fiume” issa la scatola delle anguille come una bandiera.

Oggi  Comacchio è bellissima e intatta con i suoi ponti, i suoi canali i  palazzi antichi e un favoloso Carnevale. Da queste parti bisogna proprio  venirci!  Cè una bellezza nelle cose e una gentilezza nelle persone che toccano entrambe il cuore …e una cucina gustosa e leggera al tempo stesso, dove il pesce e soprattutto l’anguilla, cucinata in mille modi, la fa da padrona. Fra le tante ricette della zona abbiamo scelto ,una fra le più rappresentative e delicate:risotto-allanguilla

RISOTTO CON L’ANGUILLA

INGREDIENTI (per 4 persone): 250 grammi di riso, 2 anguille da 350 grammi ciascuna, 70 grammi di formaggio grana padano, 20 grammi di pecorino, 1 cipolla, 1 fettina di lardo di circa 50 grammi, noce moscata, sale, 1 carota, 1 zucchina, 1 gambo di sedano.

PREPARAZIONE: si fissano le anguille su un’asse di legno con un punteruolo, si aprono e dopo aver estratta la lisca e tolte le interiora, si sciacquano sotto l’acqua corrente. Si eseguono poi dei tagli trasversali che consentono di staccare meglio la polpa dalla pelle. Si prepara un brodo  con 1 litro abbondante di acqua immergendovi la pelle, le teste e le lische e unendo il sedano, la carota e 1/2 cipolla. Si schiuma anche più volte nelle prime fasi della cottura e si lascia sulla fiamma a calore moderato per circa 3/4 di ora. Se è necessario, durante la cottura si aggiunge altra acqua.

In una teglia a parte si fa soffriggere l’altra mezza cipolla con il lardo tagliato a tocchetti, aggiungendovi un po’ di brodo a cui si aggiungerà, una volta che il lardo si sia appena colorito, la polpa sminuzzata delle anguille, (lasciando da parte 4 tocchetti della lunghezza di 2 cm ciascuno che serviranno per la decorazione) e si fanno cuocere per circa 20 minuti. Dopo si aggiunge il riso, si copre con il brodo e lo si fa cuocere   seguitando  a coprirlo con poco brodo per non farlo bruciare. Verso la fine si aggiunge un pizzico di sale.

A parte si grattugiano i due formaggi insieme alla noce moscata e qualche minuto prima del termine della cottura si aggiungono al riso. Si serve caldo decorando ogni piatto alla sommità con una striscia arrotolata di zucchina grigliata e un tocchetto di anguilla.

Ponte-di-Comacchio

Capodanno a cotechino e lenticchie!

futuraltamira-1Figuriamoci se quei colori così vivi e quei giochi di prospettiva erano stati dipinti 17.000 anni fa!  Di certo  doveva trattarsi di una colossale truffa. E dopo questo giudizio così definitivo, la comunità scientifica  francese e spagnola ci mise più di vent’anni a capire che  la mandria di bisonti, il gruppo dei cervi e quel cinghiale tutto solo, erano proprio autentici. Correva ormai l’anno 1902 e con una certa enfasi si batterono il petto, dissero mea culpa e paragonarono  le Grotte di Altamira alla Cappella Sistina del paleolitico. Ma lo scopritore Marcelino Sanz de Sautoula, non riuscì in alcun modo a rallegrarsene, dopo tante amarezze e accuse di falso, perché, nel frattempo era morto, ormai da quasi 15 anni.

Soprattutto per quanto riguarda il cinghiale,  la grotta di Altamira  aveva portato a un risultato sconvolgente, perchè  sino a quel momento si  era creduto che i primi rapporti degli umani con il selvatico abitante dei boschi  non risalissero oltre i cinquemila anni avanti Cristo quando, secondo la tradizione, in  Cina e poi in Mesopotamia,- gli uni all’insaputa degli altri, perché allora i rapporti non erano così frequenti- avevano cominciato a cacciarlo e poi ad allevarlo per le sue carni eccezionali. E invece ora veniva fuori che non solo la conoscenza era avvenuta molto prima, ma i nostri paleolitici progenitori lo dovevano conoscere molto bene, perché, mentre gli altri animali sono ritratti in gruppo, lui se ne sta lì isolato. Certamente già  avevano capito che così gli piace vivere, da solo, proprio come fa  ancora oggi, quando corre libero per le foreste.

Sicuramente intenso, ma sempre bivalente è stato il rapporto dell’ uomo con il cinghiale e poi con il suo discendente diretto il maiale, acinghiale2-1 volte  ammirato, a volte temuto  o addirittura disprezzato. I Druidi, tanto gli erano devoti che ne mangiavano le carni, sicuri di acquistare potenza divina e, guarda caso, lo  facevano il primo dell’anno, tradizione che per oscure vie è rimasta tutt’oggi.

I Greci, invece, spesso dovevano andare a cacciarlo, per necessità, perchè  lui, il grande mangiatore del bosco e dei campi, gli rovinava tutte le coltivazioni. Mosaico MontevenereCacciatori d’eccezione all’epoca furono Ercole, chiamato a salvare l’Arcadia dalla devastazione del predatore e Meleagro, uno degli Argonauti, che dovette correre in aiuto di suo padre, alle prese con  un furioso cinghiale che stava distruggendo il regno.  Quella caccia caledonia, rimase  veramente memorabile, tanto che per secoli, sui vasi, sui mosaici e sui sarcofagi, tutti hanno seguitato a ritrarla.

Gli Etruschi, nemmeno a dirlo, lo trattavano con reverenza assoluta, tanto che, con le  sue viscere ci predicevano il futuro e i fiorentini  gli sono andati appresso nella tradizione. Hanno copiato una famosa statua di marmo etrusca che raffigurava il cinghiale e l’hanno piazzata in mezzo a una fontana nella Piazza del Mercato Nuovo. Lì, ancora oggi, stranieri e gente di città gli vanno a toccare il naso in cerca di fortuna.

I romani, che nel frattempo, se l’erano ritrovato trasformato in maiale domestico, a parte i favolosi manicaretti che si  preparavano con le ricette di Apicio, gli erano molto grati perché, secondo la leggenda, era stata un a bianca  scrofa a indicare a Enea il punto in cui sbarcare nel Lazio. Ed è noto che, con quello sbarco, ebbe inizio la gloria di Roma! A Roma era inoltre oggetto di devozione, per la sua fertilità, simbolo dei cicli riproduttivi di tutta la natura, tanto che le giovani spose sapevano che era di buon auspicio  ingrassare i cardini della loro nuova casa con grasso di maiale.

Fra quelli che il povero maiale e il suo fratellastro, il cinghiale dei boschi, non lo potevano  proprio vedere, ci sono invece i cristiani e i  preti, che nel Medio evo gli  attribuirono le peggiori nefandezze.

Non solo gli tolsero il senso del sacro che gli avevano dato gli antichi, ma ne fecero il simbolo della lussuria, dell’aggressività e del male, tanto che in molti giuravano di aver visto, con i propri occhi, il diavolo sotto forma di maiale, scappare dal corpo di un’indemoniato,  quando il prete lo liberava dal maligno.

Oggi i tempi sono ovviamente cambiati, molte cose sono diverse, ma è rimasto il bruttissimo vizio di  utilizzare il nome del maiale come metafora agli insulti e come sinonimo di ciò che è sporco o disprezzabile.

Per fortuna che si dice pure “Del maiale non si butta nulla” ed è l’ antico detto a rivalutare questo generoso animale, capace di offrirci  oltre la sua carne fresca, autentici gioielli conservati come il culatello, il prosciutto, la mortadella, lo zampone, il salame, la pancetta,il guanciale, la salsiccia e… tante altre ancora, comprese le setole, con cui si fanno ottime spazzole.

maialeIl  maiale si mangia tutto l’anno, ma, durante le feste natalizie, una delle specialità che più prepotentemente arriva alla ribalta è   il “Cotechino”, vecchio ormai di qualche secolo, ma sempre giovanissimo di profumi e  gran sapore..

Sulle sue origini se ne sono dette tante, ma la più accreditata è quello che lo fa nascere da un momento di difficoltà. Era l’anno 1511 e Mirandola, una piccola città vicino Modena, era assediata dalle truppe del Papa Giulio II. L’inverno era freddo, le scorte erano finite  e la fame era alle porte. “Rimangono i maiali, è vero, ma sono bestie grosse – dicevano fra loro gli assediati-  e non si riesce a mangiarle tutte, prima che vadano a male. Ci sarebbe quindi un grande spreco e dopo pochi giorni avremo più fame di prima. Ma se lasciamo vivi i maiali e perdessimo la città – si dicevano pure – sarebbe un vero peccato far arrivare tutta questa abbondanza ai nostri nemici.

E mentre si perdevano in mezzo a mille dubbi, al cuoco dei signori di Mirandola, che anni prima aveva servito il grande Pico, il quale probabilmente gli aveva trasmesso qualche granello di genialità, venne l’ “Idea”, quella che poi sarebbe risultata possibile e vincente,  di conservare il maiale, opportunamente salato e cucinato, entro il suo stesso budello, legandolo alle due estremità. In tal modo il cuoco era sicuro che, seguendo le sue istruzioni, la carne  si sarebbe conservata e l’avrebbero così potuta mangiare, un po’ per volta “in loco”, o l’avrebbero portata via, abbastanza agevolmente,in caso di fuga.

La storia per i Mirandolesi non finì bene e a battezzare il “Cotechino”, ultimo nato  fra le tante specialità del maiale, furono proprio le truppe del Papa… in compenso però era nato un grande piatto.

In sostanza si tratta di un insaccato composto da un impasto di carne magra, grasso e cotenna di suino, cui viene aggiunto sale, pepe,  spezie e spesso vino, chiudendolo infine in un budello che all’origine era naturale e, con l’andar del tempo, spesso è stato sostituito da quello artificiale.

All’inizio lo preparavano interamente a mano, i “salsicciari” modenesi, per il consumo specifico della città e dei suoi dintorni, ma doveva aver acquistato una notevole diffusione in tutta la Regione, come piatto tipico, perché compare in un Calmiere del 1745, con il prezzo indicato a fianco.

Nell’anno successivo uscì anche  la prima ricetta ufficiale, ma è solo agli inizi del XX secolo che il cotechino cadde nelle mani di un grande cuoco, Pellegrino Artusi che, con la ricetta del “Cotechino Fasciato” gli  conferì  la patente di nobiltà facendolo uscire dal suo  “piccolo mondo antico” per lanciarlo prima in ambito nazionale e poi internazionale.

Lenticchie e cotechinoOggi il cotechino, che prende il suo nome dalla ” cotenna” di maiale, uno dei suoi ingredienti fondamentali, viene prodotto industrialmente, ma non si tratta di un prodotto standard perché presenta notevoli varianti per quanto riguarda le spezie… impossibile conoscerle, ogni casa di produzione le nasconde gelosamente.

A parte il fatto che in alcune regioni come la Lombardia il Piemonte e il Veneto, il Cotechino entra nella composizione dei famosi “Lessi Misti”, questo insaccato ha un ruolo fondamentale nella cena di Capodanno e va rigorosamente mangiato assieme alle lenticchie. La tradizione delle lenticchie risale a un’usanza degli antichi Romani che, in occasione dell’anno nuovo, erano soliti regalare un portamonete con le lenticchie, augurando  che si  trasformassero, nel corso dell’anno, in monete d’oro. La tradizione si è saldata con il cotechino con la variante che il numero delle monete d’oro dipenderà dal numero delle lenticchie mangiate. E allora via e  senza troppi freni perché  questa sera di festa, se la fortuna ci assiste, ci potrà forse regalare un intera vita di felicità.

La ricetta consigliata  si basa sul cotechino non precotto che si può  trovare in commercio. Per 6 persone occorrono due salsicciotti da 300 grammi ciascuno.

Si gettano in pentola i salsicciotti, nell’acqua che bolle e si fanno cuocere a fuoco moderato e secondo i tempi indicati sulla confezione. Quando sono cotti  si passano sotto l’acqua corrente  caldaper togliere loro ogni residuo di grasso uscito fuori durante la cottura. Poi si tagliano a fette.

Sono necessari circa 400 grammi di lenticchie di tipo medio, che secondo le istruzioni, riportate sulla confezione, debbono essere tenute preventivamente a bagno per un certo numero di ore  o messe subito a cuocere.

In una pentola si fnno scaldare in 4 cucchiai d’olio extra vergine d’oliva, 1 spicchio d’aglio unitamente a 1 gambo di sedano e dopo qualche minuto si aggiungono le lenticchie. Si tolgono aglio e sedano dalla pentola, si aggiunge acqua fino a coprire le lenticchie e si regola di sale. Se durante la cottura l’acqua fosse insufficiente se ne aggiunge altra bollente, fino a cottura ultimata. Quando le lenticchie sono cotte si scolano.

Mentre le  lenticchie si cuociono si prepara il sugo facendo dorare appena in una padella 1 spicchio d’aglio assieme a 1  gambo di sedano tagliato a piccoli pezzi, poi si aggiunge 400 grammi di passata di pomodoro, si sala il tutto e si fa ritirare la salsa per circa 20 minuti. Al termine si aggiungono le lenticchie  che si fanno insaporire per circa 10 minuti e infine il cotechino tagliato a fette. Dopo 10 minuti si spegne il fuoco. La preparazione acquista più sapore  se si prepara qualche ora prima e si scalda dolcemente prima di portarla in tavola. Se, nell’attesa, si fosse troppo “ristretta,” si può aggiungere qualche  cucchiaio d’acqua preferibilmente tiepida mentre si riscalda.

Buon Anno e felice Anno Nuovo!

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Pizzoccheri della Valtellina

B_incisioni_rupestri_GrosioA metà strada fra Grosio e Grosotto, se avete voglia di lasciare l’auto a ciglio strada e farvi una breve salita, su un viottolo abbastanza facile, avrete la sorpresa, nell’improvviso slargo di una radura, di incontrare gli  abitanti della Valle… Li trovate lì  sulla “Rupe Magna”,  una  roccia nera, lucida e levigata dai secoli e, se li guardate bene, sono pronti a raccontarvi la loro storia, che comincia quasi 6000 anni fa. Hanno tratti essenziali, ma facilmente comprensibili e  stanno andando a caccia con i loro scudi  circolari e i  lunghi bastoni. Devono essere sicuramente persone socievoli perché li ritroviano  anche in  gruppo, come quello degli “Oranti Saltici”  che danzano e pregano in mezzo alle  capre, ai cervi e ai simboli del labirinto. E’ solo un minuto che li state guardando e già vi sentite invadere dalla fresca, incredibile gioia di vivere, che vi riescono a trasmettere.

Questa è la parte più antica perché poi, in Valtellina, fra il 2° e il 1°  millennio a.C., arrivarono i Celti, quelli della road map europea e, con loro, la grande arte incisoria, poi i popoli liguri, un po’  celti anch’essi, che già conoscevano la vite e importarono il vitigno del Nebbiolo, i Vennoneti, ricordati nel “Trofeo delle Alpi”, senza  che ci si dimentichi   degli Etruschi, i “Turreni”, che si spingevano a Nord e  forse dettero il nome alla Valle.  I secoli della conquista romana, all’inizio osteggiata dalle fiere popolazioni locali, portarono benessere, civiltà e grandi figure, come quella di Plinio “il giovane”, ma poi, alla fine de 6° secolo non bastò più nemmeno l’Impero Romano d’Oriente a impedire l’arrivo dei Longobardi prima e dei Franchi dopo. La Valle uscì dal Medioevo legata al Ducato di Milano, un’esperiena tutta italiana, che tuttavia aprì le porte alla fine del XV secolo alle invasioni straniere. In Valtellina arrivarono i Grigioni Svizzeri e ci stettero  quasi 3 secoli, dall’inizio del 1500 fino all’arrivo di Napoleone. Poi comincia tutta un’altra storia, prima con la dominazione Austriaca e poi con il Risorgimento.

Fagopyrum_esculentum1Invece, la storia che vogliamo raccontare è  molto  diversa e ha sicuramente inizio quando la Valtellina, dominata dagli Svizzeri, si chiamava “Repubblica dei Grigioni”. Fu nella seconda metà del 1600  che si cominciò a coltivare in Valle, il Grano Saraceno, portato sembra da schiave circasse e turche. Cosa ci facessero  e come soprattutto fossero arrivate le  schiave orientali,  in una terra così lontana e allora dominata dal rigorismo calvinista, è un po’ difficile da  capire. Forse il tramite era stata Venezia, nei suoi molteplici commerci privi di scrupoli, fra Oriente e Occidente. Comunque, dalla disponibilità del grano saraceno  che si  andò a mischiare con  le patate e la verza, blasonati prodotti agricoli dell’ Europa più a Nord – quella, per capirsi, da dove arrivavano i Grigioni –  è nato uno dei piatti  culinari più  famosi della Valle, che col tempo ha raggiunto fama internazionale, i “Pizzoccheri della Valtellina”.

Non si è rintracciata molta letteratura in merito, ma quella che c’è  è molto significativa. Di pizzoccheri  parla uno studioso tedesco Heinrich Ludwig Lehman che, nella seconda metà del ‘700, girò mezza Europa studiandone la geografia e  fece statistiche  con l’occhio attento  agli usi e costumi della popolazioni. Alla Valtellina dedicò il suo “Die Republik Graubunden: historisch, geographisch, statistisch dargestellt”, pubblicato a Magdeburg nel 1797. Quando Lehmann arriva a descrivere le abitudini degli abitanti contadini  così  si esprime ” I Perzockel sono una specie di tagliatelle  fatte di farina e di due uova. La pasta vien cotta in acqua, poi si aggiunge il burro e si sparge  subito il formaggio grattato”

“Un secolo dopo Ludovico Balardini, nella sua opera “Nella prima metà dell’800, i contadini mangiavano…”, stampato nella” Tipografia statistico – medica della Provincia di Sondrio”,  scrive:” Si fa gran d’uso di cereali e di certe paste grossolane che si cospergono di butirro e formaggio, a guisa di tagliatelli, delle quali vanno assai ghiotti i sondriesi…”

C’è poi un altro medico di Tellio, Bartolomeo Besta che, alla fine dell’Ottocento, fa un’analisi dell’intera economa agricola del territorio, tutta basata sull’autosufficienza della produzione e, fra una polenta taragna e uno sciatt, non  può far mancare  i pizzoccheri, che lui chiama “agliatelli,” per quel profumo di aglio tutto pieno di origini montagnarde.

pizzoccheri-della-valtellina-1Ma se poi andate cercando la ricetta, quella più tradizionale e completa ce la dà la dottoressa  Nella Credaro Porta.” I pizzoccheri sono il piatto più importante  della zona che va da Grosio a Castione con epicentro a Tellio, ed era un piatto non dei contadini più poveri in quanto presupponevano la lavorazione su un tavolo, che non sempre esisteva nelle case modeste. Si tratta di tagliatelle grossolane di farina bianca e di grano saraceno, in parti che variano da un paese all’atro. Cotte in abbondante acqua salata, in cui sono state poste, già da qualche minuto, patate e verze (o coste), a pezzi, i pizzoccheri vengono scolati col mestolo traforato e conditi a strati col formaggio semigrasso  a fette, formaggio di grana e sopra burro abbondante, fitto, ben scuro con aglio…”

E’quasi tutto, ma con  qualche piccola precisazione:  sono più morbidi e saporiti i pizzoccheri fatti in casa, utilizzati freschi. Evitate le coste, se potete, dà più carattere  all’insieme il sapore della verza. Quanto ai  formaggi, a parte l’immancabile parmigiano, i più adatti  sono un misto di Casera e Bitto, tipici della zona, meglio forse a tocchetti che a fette, o in alternativa, usate  fontina e provolone dolce.

Ma a proposito, perché si chiamano “pizzoccheri”?  Questo proprio di sicuro non si sa, ma forse  il nome deriva dalla radice “pit”  o” piz” dal significato di pezzetti o, secondo altre ipotesi,  dalla parola “pinzare” col significato di schiacciare, ovviamente la sfoglia. Alcuni  ancora fanno risalire il termine al longobardo “bizzo”, che significava boccone. Non ci rimane che scegliere quello che ci piace di più!

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