La Milano di Enzo Jannacci e gli ossibuchi col risotto giallo.

1950… Il nuovissimo grattacielo di Piazza  Repubblica è  alto 114,25 m… E’ la prima volta  che a un  edificio  viene  consentito di superare la Madonnina…  alta poco più di 108 m… Anche  altri  grattacieli stanno sorgendo, uno a  Piazza Diaz e un altro all’angolo tra Via Turati e Piazza Repubblica. La Casa Editrice Ricciardi  apre la sua nuova sede a Milano… Ha un obiettivo ambizioso…La pubblicazione  di tutta  “La letteratura Italiana”.  Antonioni sta girando  il suo primo film “Cronaca di un amore” con una giovane attrice che fino a poco tempo prima faceva la commessa di pasticceria  proprio a Milano La Callas canta per la prima volta alla Scala…  E Milano  sta cambiando, tutta presa dal suo miracolo economico.

Il quei dieci anni fra il ’50 e il ’60 quasi 300.000 persone  arrivano in cerca di fortuna… Vanno a riempire le periferie dai palazzoni tetri o i malsani scantinati del centro  e sembra che parlino altre lingue, che vanno a sovrapporsi e a mescolarsi con quella di casa… Magari le parole milanesi resistono, ma  in bocca  ai siciliani o ai  pugliesi c’è da farsi cadere le braccia.. La fabbrica però non ha occhi per il passato, non può neppure per un momento fermarsi e cercare di capire… Così  accoglie tutti nel suo disperato bisogno di mano d’opera..  Bisognerà aspettare il  1965 quando, Giovanni Pirelli,  scrivendo «A proposito di una macchina», entrerà nel cuore della Lombardia industriale, squarciando definitivamente il velo delle illusioni. Per ora è tutta baldanza  e il popolo di Milano, quello antico, sembra sopraffatto, quasi perso, pare non ci sia più,  in quel confuso crogiolo  aperto a tutte le esperienze…

C’è però qualcuno che quel popolo sa dove trovarlo…  Lui voleva fare il medico e invece  capì appena in tempo  che forse, senza di lui, nessuno avrebbe più conservato la memoria… Enzo Jannacci  aveva  un nonno pugliese arrivato con le prime migrazioni dell’inizio del ‘900, un padre, già di seconda generazione integrata, che era Ufficiale dell’Aeronautica… Forse qualche volta quando Enzo era piccolo, lo avrà portato con sè all ‘Aeroporto  di Linate che allora si chiamava Forlanini.  Enzo se lo ricorderà nella canzone del Barbone con  le scarpe da tennis… Al liceo  conosce Giorgio Gaber un amico, un fratello, quasi un’anima gemella, uno con cui  suonerà  e canterà a lungo  nei  duetti strampalati dell’assurdo… Erano i primi  a divertirsi da matti…   8 anni di pianoforte al conservatorio, diploma di armonia… e direzione  di orchestra, mentre seguita a studiare medicina…  Più in là lavorerà ai primi trapianti di cuore, in Sud Africa, nell’equipe di Barnard  e sarà  un jazzista capace di suonare con Chet Baker e Jerry Mulligan,  ma intanto è fra i tra i primi in Italia a suonare il rock’n’roll  e a spazzare via la musica melodica degli anni ’50 …

Al Santa Tecla e al Derby, i locali delle nuove tendenze,  portò il suo stile singolarissimo. Non era un urlatore, non era un rockettaro,  ma faceva   un cabaret musicale  dove dentro ci poteva essere tutto …Stralunato  paradossale,  inimitabile… Proprio com’era lui, con il  corpo  che sembrava andarsene per i fatti suoi e quel viso   da bravo ragazzo un po’ triste… Cantava storie minime di gente minima, storie disperate venate di ironia, con punte di esilarante comicità e un fondo  d’amore  per i suoi eroi di strada…   Un po’ recitava, un po’ cantava, suonava… parlava in dialetto… E intanto celebrava Milano… Sapeva che era senza scampo… Se ne stava andando quella dei barconi sui Navigli che  ancora portavano la sabbia dalle cave fino alla darsena,  il quartiere dell’Ortica  in cui il “Palo” della Banda era guercio  e non si accorgeva  mai quando arrivava la polizia…La Bovisa, Viale Forlanini, le periferie prima che fossero distrutte dall’avanzare della citta Leviatano… E la minuscola stazione di Rogoredo  ( I s’era conossü visin a la Breda, leì l’era d’ Ruguréd e lü… su no). In quei quartieri, c’era la Milano di una malavita minore… Il ladro di “ruote di scorta di micromotori  ”, quel fratello cattivo che faceva piangere la mamma,  nell’ ironica dissacrazione  “di tutte le mamme del mondo ” che ancora imperversavano nel canto melodico dei  Festival di San Remo”   A chiedere  il personaggio più amato non si sa rispondere… Il barbone ammazzato mentre  “coltivava già da tempo il suo sogno d’amore”, il tassista che si ribalta con il suo taxi  senza una ruota, ridotto a un triciclo o  quel poveretto  che l’Armando gettava  giù dal ponte ” Ma per non bagnarmi tutto mi buttava dov’è asciutto”.

jQuando sul finire degli anni ’60 quel mondo stava davvero  scomparendo  Jannacci se ne andò a fare il medico…  Era bravissimo, pignolo sino all’esasperazione, ma  a  Cantù c’era  chi lo  ricordava entrare  correndo  nei reparti e gridare, rivolto ai malati: «Cià, che fèmm una cantàda», più o meno «Su che cantiamo insieme». Era il suo modo per tenere alto il morale  a tutti e dava se stesso senza esitazioni…

Naturalmente più tardi tornò a cantare…  Tematiche  diverse per tempi cambiati, ma l’ironia era sempre la stessa…  “Ho visto un re”,  insieme a Dario Fo.. Sembra un non sense e invece  è  una metafora  a sfondo politico.  Diventa uno dei brani simboli del ’68,   quando si capisce la  graffiante satira sociale e lo sconforto della politica…  “Vengo anch’io… no tu no”, forse il suo brano di maggior successo è in realtà  la denuncia di nuove esclusioni…   Quel “Tu no”  oltre un bullo alla Carlo Verdone, messo in disparte  può essere anche un extra comunitario… “Messico e Nuvole” è un amore per nuovi borghesi pieni di divorzi facili, ma la disperazione e l’amore sono  così autentici  che fanno venire  da piangere…

Poi teatro, televisione, cinema, con quel disancorato triste personaggio de “L’Udienza”… Colonne sonore   e tanti onori… Se ne è andato in punta di piedi qualche mese fa…  Il tre giugno sarebbe stato il suo compleanno e lui non è riuscito ad arrivarci… Ma il  Governatore della Lombardia che suona Jazz e il figlio Paolo lo stanno festeggiando  ugualmente… Con una Jam Session nella sede della Regione Lombardia…

Quando é morto c’era  anche un paio di scarpe da tennis nere, nella camera ardente. La ragazza che le aveva portate ha detto a bassa voce “Mi sembrava che mancasse qualcosa, e’ giusto cosi”

Pochi dubbi per la ricetta… C’è dentro tutta l’antica tradizione di Milano…

OSSIBUCHI ALLA MILANESE  CON RISOTTO GIALLO

INGREDIENTI  PER GLI OSSIBUCHI per 4 persone: 4 ossibuchi, farina q.b., 1 cipolla, 1 carota, 50 grammi di burro, 1 dl di vino bianco secco, 1 dl di brodo di carne, 1 spicchio di aglio,  1  manciata di prezzemolo, 1 limone biologico

 INGREDIENTI PER IL RISOTTO per 4 persone:  400 g di riso, 1/2 cipolla bianca, un bicchiere di vino bianco fermo, 2 bustine di zafferano, olio extra vergine di oliva q. b. ,240 grammi di burro, 6 cucchiai di parmigiano reggiano grattugiato, brodo di carne, sale e pepe.
PREPARAZIONE DEGLI OSSIBUCHI
Tagliate la pellicola esterna degli ossibuchi  per evitare che si arricci in cottura. Sciacquateli in acqua fredda corrente, asciugateli tamponando bene con carta assorbente da cucina e infarinateli.
Sbucciate  e tritate finemente la cipolla, versatela in un tegame con il burro e fatela appassire a fuoco basso  per circa 10 minuti, mescolando spesso. Mettete gli ossibuchi nel tegame, alzate il fuoco e lasciateli dorare bene da ogni lato, facendo attenzione che la cipolla non diventi troppo scura. Eventualmente toglietela dal tegame e rimettetela prima di  sfumare la carne con il vino.  Quando sarà evaporato, salatela e pepatela.
Unite il brodo, abbassate il fuoco, coprite e fate cuocere per circa 1 ora e 30 minuti, voltando la carne di tanto in tanto; il sugo dovrà restringersi pur rimanendo fluido.
Preparate la gremolata: sbucciate e tritate l’aglio; mondate e tritate il prezzemolo; lavate bene e grattugiate la buccia del limone. Mescolate il tutto, quindi versate il ricavato sulla carne e proseguite la cottura per 5 minuti. Servite gli ossibuchi nei piatti individuali, accompagnando con risotto alla milanese.
PREPARAZIONE DEL RISOTTO ALLA MILANESE
Preparare il soffritto con olio, poco burro e cipolla tritata . Quando tutto è ben  dorato buttare il riso, amalgamare bene e sfumare con il vino bianco. Aggiungere quindi il brodo. in cui si sono già sciolte le bustine di  zafferano)e continuare la cottura per circa 15 minuti. Mantecare fuori dal fuoco, con burro freddo e parmigiano.

Capodanno a cotechino e lenticchie!

futuraltamira-1Figuriamoci se quei colori così vivi e quei giochi di prospettiva erano stati dipinti 17.000 anni fa!  Di certo  doveva trattarsi di una colossale truffa. E dopo questo giudizio così definitivo, la comunità scientifica  francese e spagnola ci mise più di vent’anni a capire che  la mandria di bisonti, il gruppo dei cervi e quel cinghiale tutto solo, erano proprio autentici. Correva ormai l’anno 1902 e con una certa enfasi si batterono il petto, dissero mea culpa e paragonarono  le Grotte di Altamira alla Cappella Sistina del paleolitico. Ma lo scopritore Marcelino Sanz de Sautoula, non riuscì in alcun modo a rallegrarsene, dopo tante amarezze e accuse di falso, perché, nel frattempo era morto, ormai da quasi 15 anni.

Soprattutto per quanto riguarda il cinghiale,  la grotta di Altamira  aveva portato a un risultato sconvolgente, perchè  sino a quel momento si  era creduto che i primi rapporti degli umani con il selvatico abitante dei boschi  non risalissero oltre i cinquemila anni avanti Cristo quando, secondo la tradizione, in  Cina e poi in Mesopotamia,- gli uni all’insaputa degli altri, perché allora i rapporti non erano così frequenti- avevano cominciato a cacciarlo e poi ad allevarlo per le sue carni eccezionali. E invece ora veniva fuori che non solo la conoscenza era avvenuta molto prima, ma i nostri paleolitici progenitori lo dovevano conoscere molto bene, perché, mentre gli altri animali sono ritratti in gruppo, lui se ne sta lì isolato. Certamente già  avevano capito che così gli piace vivere, da solo, proprio come fa  ancora oggi, quando corre libero per le foreste.

Sicuramente intenso, ma sempre bivalente è stato il rapporto dell’ uomo con il cinghiale e poi con il suo discendente diretto il maiale, acinghiale2-1 volte  ammirato, a volte temuto  o addirittura disprezzato. I Druidi, tanto gli erano devoti che ne mangiavano le carni, sicuri di acquistare potenza divina e, guarda caso, lo  facevano il primo dell’anno, tradizione che per oscure vie è rimasta tutt’oggi.

I Greci, invece, spesso dovevano andare a cacciarlo, per necessità, perchè  lui, il grande mangiatore del bosco e dei campi, gli rovinava tutte le coltivazioni. Mosaico MontevenereCacciatori d’eccezione all’epoca furono Ercole, chiamato a salvare l’Arcadia dalla devastazione del predatore e Meleagro, uno degli Argonauti, che dovette correre in aiuto di suo padre, alle prese con  un furioso cinghiale che stava distruggendo il regno.  Quella caccia caledonia, rimase  veramente memorabile, tanto che per secoli, sui vasi, sui mosaici e sui sarcofagi, tutti hanno seguitato a ritrarla.

Gli Etruschi, nemmeno a dirlo, lo trattavano con reverenza assoluta, tanto che, con le  sue viscere ci predicevano il futuro e i fiorentini  gli sono andati appresso nella tradizione. Hanno copiato una famosa statua di marmo etrusca che raffigurava il cinghiale e l’hanno piazzata in mezzo a una fontana nella Piazza del Mercato Nuovo. Lì, ancora oggi, stranieri e gente di città gli vanno a toccare il naso in cerca di fortuna.

I romani, che nel frattempo, se l’erano ritrovato trasformato in maiale domestico, a parte i favolosi manicaretti che si  preparavano con le ricette di Apicio, gli erano molto grati perché, secondo la leggenda, era stata un a bianca  scrofa a indicare a Enea il punto in cui sbarcare nel Lazio. Ed è noto che, con quello sbarco, ebbe inizio la gloria di Roma! A Roma era inoltre oggetto di devozione, per la sua fertilità, simbolo dei cicli riproduttivi di tutta la natura, tanto che le giovani spose sapevano che era di buon auspicio  ingrassare i cardini della loro nuova casa con grasso di maiale.

Fra quelli che il povero maiale e il suo fratellastro, il cinghiale dei boschi, non lo potevano  proprio vedere, ci sono invece i cristiani e i  preti, che nel Medio evo gli  attribuirono le peggiori nefandezze.

Non solo gli tolsero il senso del sacro che gli avevano dato gli antichi, ma ne fecero il simbolo della lussuria, dell’aggressività e del male, tanto che in molti giuravano di aver visto, con i propri occhi, il diavolo sotto forma di maiale, scappare dal corpo di un’indemoniato,  quando il prete lo liberava dal maligno.

Oggi i tempi sono ovviamente cambiati, molte cose sono diverse, ma è rimasto il bruttissimo vizio di  utilizzare il nome del maiale come metafora agli insulti e come sinonimo di ciò che è sporco o disprezzabile.

Per fortuna che si dice pure “Del maiale non si butta nulla” ed è l’ antico detto a rivalutare questo generoso animale, capace di offrirci  oltre la sua carne fresca, autentici gioielli conservati come il culatello, il prosciutto, la mortadella, lo zampone, il salame, la pancetta,il guanciale, la salsiccia e… tante altre ancora, comprese le setole, con cui si fanno ottime spazzole.

maialeIl  maiale si mangia tutto l’anno, ma, durante le feste natalizie, una delle specialità che più prepotentemente arriva alla ribalta è   il “Cotechino”, vecchio ormai di qualche secolo, ma sempre giovanissimo di profumi e  gran sapore..

Sulle sue origini se ne sono dette tante, ma la più accreditata è quello che lo fa nascere da un momento di difficoltà. Era l’anno 1511 e Mirandola, una piccola città vicino Modena, era assediata dalle truppe del Papa Giulio II. L’inverno era freddo, le scorte erano finite  e la fame era alle porte. “Rimangono i maiali, è vero, ma sono bestie grosse – dicevano fra loro gli assediati-  e non si riesce a mangiarle tutte, prima che vadano a male. Ci sarebbe quindi un grande spreco e dopo pochi giorni avremo più fame di prima. Ma se lasciamo vivi i maiali e perdessimo la città – si dicevano pure – sarebbe un vero peccato far arrivare tutta questa abbondanza ai nostri nemici.

E mentre si perdevano in mezzo a mille dubbi, al cuoco dei signori di Mirandola, che anni prima aveva servito il grande Pico, il quale probabilmente gli aveva trasmesso qualche granello di genialità, venne l’ “Idea”, quella che poi sarebbe risultata possibile e vincente,  di conservare il maiale, opportunamente salato e cucinato, entro il suo stesso budello, legandolo alle due estremità. In tal modo il cuoco era sicuro che, seguendo le sue istruzioni, la carne  si sarebbe conservata e l’avrebbero così potuta mangiare, un po’ per volta “in loco”, o l’avrebbero portata via, abbastanza agevolmente,in caso di fuga.

La storia per i Mirandolesi non finì bene e a battezzare il “Cotechino”, ultimo nato  fra le tante specialità del maiale, furono proprio le truppe del Papa… in compenso però era nato un grande piatto.

In sostanza si tratta di un insaccato composto da un impasto di carne magra, grasso e cotenna di suino, cui viene aggiunto sale, pepe,  spezie e spesso vino, chiudendolo infine in un budello che all’origine era naturale e, con l’andar del tempo, spesso è stato sostituito da quello artificiale.

All’inizio lo preparavano interamente a mano, i “salsicciari” modenesi, per il consumo specifico della città e dei suoi dintorni, ma doveva aver acquistato una notevole diffusione in tutta la Regione, come piatto tipico, perché compare in un Calmiere del 1745, con il prezzo indicato a fianco.

Nell’anno successivo uscì anche  la prima ricetta ufficiale, ma è solo agli inizi del XX secolo che il cotechino cadde nelle mani di un grande cuoco, Pellegrino Artusi che, con la ricetta del “Cotechino Fasciato” gli  conferì  la patente di nobiltà facendolo uscire dal suo  “piccolo mondo antico” per lanciarlo prima in ambito nazionale e poi internazionale.

Lenticchie e cotechinoOggi il cotechino, che prende il suo nome dalla ” cotenna” di maiale, uno dei suoi ingredienti fondamentali, viene prodotto industrialmente, ma non si tratta di un prodotto standard perché presenta notevoli varianti per quanto riguarda le spezie… impossibile conoscerle, ogni casa di produzione le nasconde gelosamente.

A parte il fatto che in alcune regioni come la Lombardia il Piemonte e il Veneto, il Cotechino entra nella composizione dei famosi “Lessi Misti”, questo insaccato ha un ruolo fondamentale nella cena di Capodanno e va rigorosamente mangiato assieme alle lenticchie. La tradizione delle lenticchie risale a un’usanza degli antichi Romani che, in occasione dell’anno nuovo, erano soliti regalare un portamonete con le lenticchie, augurando  che si  trasformassero, nel corso dell’anno, in monete d’oro. La tradizione si è saldata con il cotechino con la variante che il numero delle monete d’oro dipenderà dal numero delle lenticchie mangiate. E allora via e  senza troppi freni perché  questa sera di festa, se la fortuna ci assiste, ci potrà forse regalare un intera vita di felicità.

La ricetta consigliata  si basa sul cotechino non precotto che si può  trovare in commercio. Per 6 persone occorrono due salsicciotti da 300 grammi ciascuno.

Si gettano in pentola i salsicciotti, nell’acqua che bolle e si fanno cuocere a fuoco moderato e secondo i tempi indicati sulla confezione. Quando sono cotti  si passano sotto l’acqua corrente  caldaper togliere loro ogni residuo di grasso uscito fuori durante la cottura. Poi si tagliano a fette.

Sono necessari circa 400 grammi di lenticchie di tipo medio, che secondo le istruzioni, riportate sulla confezione, debbono essere tenute preventivamente a bagno per un certo numero di ore  o messe subito a cuocere.

In una pentola si fnno scaldare in 4 cucchiai d’olio extra vergine d’oliva, 1 spicchio d’aglio unitamente a 1 gambo di sedano e dopo qualche minuto si aggiungono le lenticchie. Si tolgono aglio e sedano dalla pentola, si aggiunge acqua fino a coprire le lenticchie e si regola di sale. Se durante la cottura l’acqua fosse insufficiente se ne aggiunge altra bollente, fino a cottura ultimata. Quando le lenticchie sono cotte si scolano.

Mentre le  lenticchie si cuociono si prepara il sugo facendo dorare appena in una padella 1 spicchio d’aglio assieme a 1  gambo di sedano tagliato a piccoli pezzi, poi si aggiunge 400 grammi di passata di pomodoro, si sala il tutto e si fa ritirare la salsa per circa 20 minuti. Al termine si aggiungono le lenticchie  che si fanno insaporire per circa 10 minuti e infine il cotechino tagliato a fette. Dopo 10 minuti si spegne il fuoco. La preparazione acquista più sapore  se si prepara qualche ora prima e si scalda dolcemente prima di portarla in tavola. Se, nell’attesa, si fosse troppo “ristretta,” si può aggiungere qualche  cucchiaio d’acqua preferibilmente tiepida mentre si riscalda.

Buon Anno e felice Anno Nuovo!

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Ai tempi di Maria Carolina

624px-Angelika_Kauffmann_Portrait_Maria_Karoline_von_Österreich_VLM_offEra sbarcato a Napoli con gli Aragonesi, sul finire del 1300, quando i sovrani Spagnoli, che venivano a prendere possesso del loro nuovo regno, ci riempirono le stive delle  navi.  Dovevano aver saputo che da quelle parti si mangiava  poco e male e così si  erano fatti un po’ di provviste. E non erano di sicuro  tutte balle quelle che  li avevano spaventati perché, volenti o nolenti, vista la scarsità di cibo e di quattrini, a quell’epoca i napoletani  erano già tutti a dieta mediterranea a base di verdure e cavoli soprattutto, tanto da essere stati soprannominati, con una certa cattiveria, “I Mangiafoglia”.  Ma  nonostante  la fame di Napoli,  il riso degli Aragonesi  non fu molto apprezzato anche perché, nel frattempo, stava arrivando, sia pure per altre vie, la pasta. che sarebbe ben presto diventata il simbolo della gastronomia napoletana. Al riso dunque fu riservato uno scarso successo e se non sparì del tutto dalla circolazione si deve al fatto che, la grande Scuola Medica  Salernitana, ne scoprì le virtù  curative  e gli trovò largo impiego nella cura delle malattie gastro- enteriche. Ma questo non fece che aumentare la diffidenza dei napoletani  che, ben presto,  finirono per  associare il riso alla malattia stessa. Dopo un po’ il riso  si rassegnò, prese altre strade e si trovò benissimo negli acquitrini del Nord  Italia, dove soprattutto in Veneto, Piemonte e Lombardia, diventò uno dei cardini dell’economia e un alimento privilegiato nella preparazione dei ricchi piatti riservati alla nobiltà e alla borghesia. E ce ne mise per tornare al sud!  Più di tre secoli e tutto questo avvenne  quando  Napoli divenne una città cosmopolita, tutta tesa a gareggiare con le più importanti città europee. E’ vero che dopo l’Unità d’Italia c’è stata una lunga e perversa campagna denigratoria contro i Borboni, e il regno delle 2 Sicilie. Ma si sa, la storia la fanno i vincitori e  faceva molto comodo, ai nuovi padroni,  presentarsi come i “Salvatori della Patria.”

Invece Napoli, nella seconda metà del ‘700 era tutta un fervore di Illuminismo  che la Monarchia  assorbiva e  poi trasformava in riforme. Uno sforzo enorme per rendere laica l’istruzione – e non era  stato facile visto che lo Stato confinava con  il Papato di Roma – una nuova rete stradale, l’Università con le nuove facoltà scientifiche, la porcellana di Capodimonte, che nulla aveva da invidiare alle  prestigiose fabbriche francesi o inglesi,  e poi … soprattutto, e questa fu la cosa più importante, Napoli  aveva una Regina. Maria Carolina veniva dal Nord, emancipata, illuminista, massone e molto ambiziosa. Ci mise poco a entrare nel cuore del potere, scardinando  il Primo Ministro e il Re che, del resto,  preferiva spesso andarsene a caccia, sapendo di  lasciare il regno in buone mani. Fra le altre cose Maria Carolina  volle che, l’opificio di San Leucio, da dove cominciava a uscire la seta più bella del mondo, diventasse una Repubblica Socialista, con parte dei beni in comune e una rigorosa parità dei sessi in cui le donne ereditavano, si sceglievano da sole il marito e avevano una stipendio uguale a quello degli uomini. Cosa non da poco se si considera che a tutt’oggi questo concetto fa ancora fatica a farsi strada. In politica estera la regina mise un p0’ da parte suocero e  cognato re di Spagna e si avvicinò sempre di più all’Austria a all’Inghilterra,  ma quando si parlava di cultura o di bellezza il cuore di Maria Carolina  batteva tutto  per la Francia, tanto da trasformare la bigotta corte, che aveva trovato al suo arrivo a Napoli,  in una sfarzosa festa senza fine dove però  si dava grande spazio  anche  ai migliori intelletti  di quel tempo illuminato. E visto che la corte era anche la sede dei fastosi banchetti dove si costruivano le alleanze o si preparavano le guerre, i veri  dominatori della Corte Reale e delle Corti principesche, che  riempivano di fasto la vita napoletana,  erano diventati i cuochi francesi, perché era dalla Francia che  veniva la più eccelsa preparazione dei cibi, divenuta arte raffinata e incontrastata.

san-leucio-borgoE dal cibo a tutto il resto il passo è breve  e così  presto ci  si vestirà  alla francese e si parlerà in francese! Lingua d’obbligo ormai di tutti i salotti bene, anche se, a volte, si tingeva un po’ di napoletano, tanto che i cuochi, sia quelli  strettamente francesi, sia quelli  napoletani trasformisti, venivano chiamati “Monsù.” La più dura battaglia di questi Monsù con i loro padroni, fu la battaglia del riso, già divina pietanza d’oltralpe, ma al quale regnanti e principi  seguitavano a  mostrarsi  tutti…sovranamente indifferenti, se non addirittura ostili. I Monsù dovettero mobilitare tutte la loro inventiva artistica per farlo accettare e la prima cosa che fecero fu tingerlo  di rosso, visto  che il pomodoro era già divenuto una specie di viatico per il Paradiso. Ma non fu sufficiente! I testardi partenopei seguitavano a chiamarlo nel loro colorito dialetto senza scrupoli “Sciacquapanza” e fu allora necessario scatenare  veramente la fantasia per arricchirlo con ogni ben di Dio. Ne fecero una gran ciambella e, allo scopo di insaporire e guarnire,  la riempirono e la coprirono a cupola,  con le  melanzane fritte, i pisellini e  le polpettine al sugo. Le signore cinguettarono di gioia, di fronte a quella presentazione deliziosa, con tutte  quelle prelibatezze  “sour tout”, che, tuttavia,  non riuscendo a ben pronunciare, ben presto trasformarono in “Sartù.” Il riso stavolta ce l’aveva fatta e fu solo l’inizio … perché poi sarebbero arrivati gli arancini e i supplì a far festa. Prima nelle tavole dei ricchi e poi in quelle di tutti, in una  insolita ma felice metafora di  eguaglianza  gastronomica.

E allora, coraggio, divertiamoci anche noi  a fare i Monsù per un giorno, e per Natale, prepariamoci il Sartù!

Cominciamo con il ragù,  facendo soffriggere mezza cipolla a cui vanno aggiunte  due salsicce che si fanno rosolare. Dopo si versa nel tegame 1 litro e mezzo  di passata di pomodoro e  il sale. Si copre il tegame e si fa cuocere per un’ora a fuoco basso.

Poi si rassodano due uova, si tagliano a spicchi e si mettono da parte.

Si tagliano due melanzane a fette piuttosto spesse e si fanno friggere in olio extra vergine di oliva, poi si scolano su carta assorbente e si mettono da parte.

Dopo aver messo a bagno,  in acqua calda, 10 grammi di funghi porcini per 20 minuti, per farli “rinvenire,” si preparano le polpettine con 200 grammi di carne tritata, 30 grammi di parmigiano grattuggiato, un uovo e due fette di pancarrè sbriciolate, ammorbidite  in un bicchiere di latte e strizzate, a cui era stata tolta la crosta in precedenza. Si formano delle polpettine non più grandi di una noce, si friggono in abbondante olio extra vergine e si mettono poi a scolare su carta assorbente.

In una padella si soffrigge mezza cipolla in cui si dorano 50 grammi di pancetta e si aggiungono 250 grammi di piselli e i funghi rinvenuti. Si fa cuocere tutto per 10 minuti e si mette da parte.

P1090401pPassiamo alla cottura del riso facendo soffriggere, in una pentola, mezza cipolla tagliata a fette in olio extra vergine di oliva, poi  si aggiungono 400 grammi di riso, si fanno tostare, si condisce con metà del ragù di carne e si copre di brodo. Lo facciamo cuocere per 10 minuti circa seguitando a ricoprirlo  di brodo per non farlo bruciare. Dopo averlo tolto dal fuoco,abbastanza asciutto, aggiungiamo 50 grammi di parmigiano, facendolo mantecare.

Mentre si cuoce il riso, dal ragù si estraggono le due salsicce, si sminuzzano e si mettono da parte.

Prendiamo adesso uno stampo per ciambelle, imburriamolo e cospargiamolo di pane grattato, poi foderiamolo di riso sul fondo e sulle pareti e aggiungiamo  metà dei piselli, delle polpette, delle salsicce, poi 150 grammi di  mozzarella tagliata a dadini, 1 uovo sodo tagliato a strisce,1  melanzana tagliata a pezzetti e  spolverizziamo con circa 50 grammi di parmigiano.  Ricopriamo con il resto del riso  che deve arrivare al bordo dello stampo, spolverizziamo  con 100 grammi di  parmigiano e il  pangrattato e inforniamo per 25 minuti circa.

Estraiamo  lo stampo dal forno e prima di rovesciarlo sul piatto di portata, passiamo la lama di un coltello all’interno dello stampo per staccare  la forma di riso dallo stampo stesso. Quando è rovesciato sul piatto  si stacca dal fondo con piccoli colpi ben assestati e si solleva lo stampo.

Prima di portare in tavola si cosparge in cima,” sour tout”  il resto degli ingredianti, piselli, polpettine, salsicce, 100 grammi di mozzarella, l’ultima parte di ragù, 1 melanzana e 1 uovo a  spicchi che, in parte scenderanno  nel foro della ciambella e in parte resteranno posizionati in cima.

Il Sartù si porta in tavola intero a far bella mostra di sè  e si taglia a spicchi in presenza degli ospiti. 8, secondo le dosi adoperate.

Palazzo_Reale_di_Napoli_(schiacciata)