Passaggio a Nord ovest… I carciofi di Sacagawea!

“Il fiume Missouri e gli indiani che lo abitano, non sono  conosciuti abbastanza, come sarebbe invece richiesto dai rapporti che abbiamo con essi… Un ufficiale capace, con 10 o 12  uomini  scelti, potrebbe esplorare l’intera regione… sino all’Oceano Pacifico “… Con un messaggio del tutto informale al Congresso degli Stati Uniti,  il Presidente  Thomas Jefferson cominciava a rendere pubblico il progetto sul quale stava  lavorando da un anno e mezzo…. All’inizio erano state solo voci prive di conferma, poi il quadro si era fatto  più chiaro…. La Spagna stava restituendo l’ immenso territorio della Louisiana alla Francia… Agli Stati Uniti, nelle dinamiche del passaggio, sarebbe bastato poter mettere le mani su New Orleans, per avere  uno sbocco  nel Golfo del Messico, tutto in mano agli spagnoli … Ma altro che New Orleans…  Napoleone si voleva dar via l’intero territorio della Louisiana… Questo riferì da Parigi l’ambasciatore Americano…Di un territorio malsano, male occupato e contrastato Bonaparte  non sapeva che farsene … Preferiva i soldi, per finanziarsi quelle spaventose guerre che avrebbero messo l’Europa in ginocchio… ai suoi piedi. E per Napoleone, poi, ampliare il nuovo Stato Americano significava indebolire gli odiatissimi inglesi, mettendo a dura prova la loro supremazia nel continente Nord Americano…

15 milioni di dollari e ad Aprile del 1803 il Trattato di Trasferimento della Louisiana agli  Stati Uniti era cosa fatta… A giugno il Presidente  Jefferson dava l’incarico al  Capitano Meriwether Lewis di andare a esplorare quello sconosciuto territorio di cui l’ultima parte, l’Oregon sembrava ancora terra di nessuno…  “L’obiettivo della vostra missione è quello di esplorare il fiume Missouri, le sue principali correnti, il suo corso e  lo sbocco nell’Oceano Pacifico e verificare se il Columbia, l’Oregon o il Colorado o qualunque altro corso d’acqua possano offrire vie di comunicazione più dirette, attraverso l’intero continente, al fine  di agevolare o rendere praticabili i commerci…”

Lewis era un “giovin signore”della Virginia, figlio di piantagioni, nell’esercito per un po’ di avventura e  da un paio d’anni Segretario particolare del Presidente… Sapeva di botanica, astronomia e altre scienze  naturali… Tutto ciò che l’Illuminismo chiedeva di conoscere ai suoi figli migliori… Era anche un pò depresso, ma  fu capace di scegliere il suo compagno… Il Capitano William Clark era anch’egli  un Virginiano D.O.C, buona istruzione, eccellente cartografo, un gran senso pratico e voglia di comunicare… Aveva simpatia per gli indiani che durante la spedizione lo chiamavano familiarmente “Il capo Testa Rossa” e  lo rispettavano…

Si fa presto a dire Ovest, ma il viaggio andava preparato… “Acquistai le cose più disparate, racconta Lewis, dagli strumenti per la navigazione agli oggetti da regalare agli indiani, dai vestiti alle munizioni, dal cibo all’attrezzatura per gli accampamenti, dal tabacco alle medicine…” Clark  lo aveva preceduto partendo  da St Louis … a San Charles si riunirono. Alti quasi due metri, volti abbronzati,  abiti di pelle, lunghe giacche sfrangiate e  cappelli di castoro… Certo non lo potevano sapere, ma erano già entrati in un film western…. Anche  degli indiani  sapevano  poco… Si diceva che fossero i discendenti di una  qualche  tribù di Israele e alcuni, forse, addirittura di origine gallese… Gli Americani erano persino disposti ad assimilarli… se appena si fossero un po’ civilizzati…

Non fu un ‘inizio entusiasmante quando finalmente  salparono nel  mese di maggio del 1804… Le rive del Missouri erano desolate…Le zanzare una tortura…  Si sparsero di grasso dalla testa ai piedi…  Enormi  banchi di sabbia ostacolavano la navigazione, un po’ a vela, un po’ a remi, un po’ con le funi che dalla riva trascinavano  il barcone “ammiraglio” lungo 17 metri e due piroghe… Poi arrivarono i bisonti… Attraversavano il fiume da una “grande prateria” all’altra ed erano talmente tanti che ogni mandria fermava la spedizione per più di un’ora…

Gli indiani per quasi due mesi non li videro e, alle prime tribù che incontrarono, Oto e Missouri, parlarono con enfasi e ingenuità del Grande Padre  che stava a Washington  tutto diverso da quei  violenti e traditori  inglesi e francesi…. Quindi offrirono loro medagliette e bandierine per farli sentire parte della grande nazione americana… Ma  Little Thief e Big Horse, i  capi tribù già smaliziati  dal passaggio dei commercianti bianchi di pellicce , chiesero  invece solo whiskey e fucili e se ne andarono via parecchio  scontenti… Con i Sioux Teton del Nord a momenti arrivarono allo scontro… I Teton  controllavano i commerci  sul Missouri e  c’era il timore che gli americani li  soppiantassero e riempissero di fucili i loro nemici Mandan e Hidatsa… C ‘era già in questa prima spedizione, l’avvisaglia di guerra che tormentò  tutto  l’800.  Indubbiamente i due capitani poco capirono dei nativi… Del resto non era facile… Era anche per  gli indiani  un tempo di rapida evoluzione e le epidemie di vaiolo portate dai bianchi avevano stravolto le antiche gerarchie, lasciando qua e là vuoti di potere riempiti da nuovi capi emergenti…Finalmente Lewis e Clark arrivarono nel territorio dei Mandan e lì svernarono…  Al loro arrivo vi erano solo cinque villaggi, due Mandan e tre Hidatsa che si stavano  proprio allora riprendendo dopo la catastrofe delle epidemie. In uno di questi villaggi,un miglio più a nord, sul grande fiume,  viveva il commerciante francese della North West Company, Toussaint Charbonneau con le sue mogli indiane…

Charbonneau si  era offerto come interprete…   Conosceva la lingua hidatsa  e il francese che un membro della spedizione poi traduceva in inglese ai due capitani… In quel territorio era stato sufficiente,… Ma ora bisognava attraversare le Montagne Roocciose e anche il percorso linguistico si complicava…  Lì c’erano gli Shoshone e  l’interprete principale diventava Sacagawea, una Shoshone rapita circa 5 anni prima dagli Hidatsa e poi comprata o guadagnata al gioco da Charbonneau,   Lui ne aveva fatto una delle mogli… Lei avrebbe potuto tradurre in Hidatsa  a suo marito che poi  avrebbe tradotto in francese…

Quando  lasciarono Fort Mandan era ormai il mese di Aprile del 1805… Avevano dovuto costruire sei piccole canoe perché da quel punto in poi il fiume era più stretto… Sacagawea invece aveva cucito uno zaino da mettersi sulle spalle per il suo   bambino  nato a febbraio…  Il 4 di maggio la barca su cui era Sacagawea quasi si capovolse… Mentre il marito  mostrava tutta la sua inettitudine lei da sola recuperò  gli oggetti scaraventati fuori bordo…C’erano molte cose importanti, strumenti  e i  diari di bordo dei capitani…    A giugno però si ammala … Clark e Lewis  hanno ormai capito quanto lei sia importante  e la curano con la massima attenzione, mentre il marito seguita, durante il giorno, a caricarla di pesi…

All’improvviso si trovarono di fronte le “Great Falls.” Per oltre 15 chilometri il Missouri precipitava…   Caricarono  le barche e i bagagli su carretti improvvisati e li portarono su per le colline.. Quasi un mese per trasportare tutto e  comunque quando arrivarono in vista delle Montagne Rocciose  avevano anche raggiunto  le sorgenti del Missouri. Dovettero   abbandonare le barche…Le informazioni ricevute prima di partire non corrispond evano …  C’era ancora tanto da andare… E a piedi, senza cavalli  le Montagne Rocciose non le avrebbero mai superate.   Sembrava non ci fosse più acqua  nel “Passaggio a Nord Ovest” … Sacagawea li tranquillizza…   Si farà dare i cavalli dalla sua tribù e arriveranno al Pacifico…  

28 luglio, dal Diario di Clark…”Il nostro campo è proprio sul posto dove  gli indiani  Shoshone erano accampati al momento  in cui videro i  Minnetares ( Hidatsa)  cinque anni  prima, che si dirigevano contro di loro… Si ritirarono in fretta per  circa tre miglia fino al fiume Jefferson e si nascosero nei boschi,  ma furono  inseguiti e  attaccati… Furono uccisi 4 uomini, 4 donne, un certo numero di ragazzi, poi presero  prigionieri  tutte le bambine  e quattro maschi, Sacagawea era una delle prigioniere….”  Clark annota nel suo diario il racconto di quella terribile giornata che gli va facendo  Sacagawea e poi  aggiunge   “Lei non mostra alcuna emozione di dolore nel ricordare   la cattura e neanche gioia  nel tornare al suo paese natale… Io penso che  se ha abbastanza da mangiare e  qualche  ornamento da mettere sul vestito sia  perfettamente soddisfatta in qualunque posto …”

Ma il 17 agosto, mentre seguitano a viaggiare nel territorio degli Shoshone si deve ricredere. “Sacagawea, che era con il marito  100 metri più avanti, ha cominciato a ballare e a mostrare tutti i segni della gioia più  straordinaria, girando intorno a lui  e indicando diversi indiani, che ora si cominciavano a vedere mentre avanzavano a cavallo…  Lei, col linguaggio dei gesti, si  succhiava  le dita per indicare che erano della sua tribù nativa.

“Lei entrò nella tenda, si sedette e cominciò a  fare da interprete, quando nella persona di  Cameahwai, il Capo degli Shoshone, riconobbe suo fratello..  Immediatamente balzò in piedi,  corse e lo abbracciò, gettando su di lui la sua coperta e piangendo copiosamente.”

Ebbero i loro cavalli, ma dovettero dare i fucili agli Shoshone… Erano poveri e non sapevano come difendersi… Dopo le montagne rocciose ripresero  a navigare… stavolta era il Columbia …  Strada facendo Sacagawea sacrificò la sua bellissima cintura di cui si era invaghito un indiano… Era l’unico modo per avere le  pellicce di foca che Lewis e Clark volevano portare in dono al Presidente Jefferson… Finalmente il 7 Novembre 1805, dopo circa 6000 km il Capitano Clark scrisse sul suo diario:  Grande gioia nel campeggiare in  prossimità dell’Oceano”…Sacagawea volle andare con il primo gruppo e per la prima volta rivelò se stessa “Ho fatto tutta questa strada  per vedere le grandi acque,  ora voglio andare  subito… C’è la carcassa di una grande balena sulla riva… se tardo forse non riesco a vederla”  Aveva diciassette anni e nessuno le aveva mai insegnato nulla, ma aveva gli stessi interessi e la stessa curiosità di uno scienziato…

Era ormai inverno e piantarono il campo a Fort Clatsop.  A primavera cominciarono il viaggio di ritorno e i due capitani si divisero per un tratto…

15 luglio 1806… Dal Diario di Clark  “Sacagawea ha riconosciuto un  territorio  che aveva attraversato da bambina con la sua tribù Shoshone…Mentre io sto valutando i sentieri più adatti  per attraversare le montagne, la donna indiana che è è stata di grande aiuto come guida attraverso il paese, mi  indica un valico  più a sud … Passeremo di lì.” Più tardi quel  valico fu chiamato Bozenam Pass e   fu scelto come miglior luogo dove far passare la  Northern Pacific Railway.

Non trovarono l’intera rotta fluviale, ma scoprirono cinque passaggi attraverso le Montagne Rocciose e fornirono un documento eccezionale sulla natura e le ricchezze dei nuovi territori… Mentre tornavano verso St Louis incrociarono  i primi barconi in partenza  che seguivano la rotta da loro individuata…

Clark  visse a lungo pieno di onori e adottò il bambino di Sacagawea… Studi all’estero, incarichi… Ne fece quasi un Virginiano… Lewis non ce la fece nonostante l’incarico di Governatore della Luisiana… Era sempre più depresso e beveva… Si suicidò pochi anni dopo mentre stava andando a trovare il suo amico Presidente… Lei invece, trascurata dalla cronaca, entrò nel mito… Forse morì giovane o forse vecchissima… Qualcuno dice che lasciò il suo stupidissimo marito e si risposò… Forse ebbe una bambina Lisette, ma non è sicuro… Quasi certo che Clark se ne fosse innamorato…  l’ammirava troppo… Oggi è la donna americana che ha più statue e più monumenti in tutta l’America, strade,montagne, passi di montagna si chiamano Sacagawea…  Qualche anno fa il Presidente Clinton l’ha nominata Sergente degli Stati Uniti e le hanno dedicato una moneta da  1 dollaro dove è ritratta con il suo bambino sulle spalle… Peccato che fra tante immagini di Lewis e Clark non ce ne sia nemmeno una di lei… Almeno c’è da augurarsi che sia stata anche un po’ felice….

In alcuni tratti della spedizione la mancanza di cibo fu uno dei problemi principali… Quando   si ridussero  a mangiare del vecchio mais, Sacagawea  trovò  per loro dei  carciofi… Insegnò a Lewis il valore nutritivo di certe radici e della liquerizia. Difficile sapere come li cucinò quei carciofi… Per questo abbiamo scelto una ricetta semplice… Con qualche erba e molto sapore… Non saranno quelli di Sacagawea, ma di sicuro sono buoni.

CARCIOFI ALLA MENTA

INGREDIENTI  per 4 persone: 8 carciofi, 4 spicchi di aglio, menta fresca,  olio extra vergine di oliva, 2 limoni, sale.

PREPARAZIONE:  Lasciate attaccato un pezzo di gambo ai carciofi, poi iniziate a pulirli togliendo loro le prime foglie più dure, poi tagliate  di netto la cima con un coltello affilato e  rigirate subito dopo il coltello attorno alla sommità, come  si fa quando si sbuccia un’arancia, in modo da portar via la parte superiore delle foglie, che è sempre la più dura. Sbucciate anche il gambo e passate su tutta la superficie dei carciofi  la metà di un limone tagliato in modo da evitare l’annerimento. Poi aprite delicatamente il carciofo, asportate l’eventuale peluria che si può formare all’interno e  inserite  in ciascun carciofo  1/2 spicchio di aglio, qualche foglia di menta, salate e richiudete la sommità.  Poi fate scaldare in un tegame l’olio, aggiungete i carciofi a testa in giù  e copriteli a metà con l’acqua, inserite nel tegame qualche spicchio di limone e qualche foglia di menta, incoperchiate e fate cuocere per circa 25  minuti,  finché l’acqua non sia completamente  assorbita.

Pollo Mole Poblano

baccello_di_cacaoCosì scriveva al suo Convento in Spagna, un Gesuita del  secolo XVI inviato nel Nuovo Mondo  ad evangelizzare gli Indios. “Disgustosa per coloro che non la conoscono… Tuttavia è una bevanda molto apprezzata dagli indiani, che la usano per onorare i nobili  che attraversano il loro paese. .. Gli Spagnoli…. che si sono abituati …sono molto golosi. Dicono di prepararne diversi tipi …e di aggiungervi  parecchio Chili.

Per gli Europei era ancora un oggetto un pò misterioso, ma in Centro America c’era almeno dal  6000 a. C.  e da 1500 anni Maya e Aztechi la coltivavano. E l’avevano tenuta anche in grande considerazione.

L’avevano  usata per esempio come unità di misura, di conto e moneta di scambio. Con un solo seme ti davano 4 pannocchie, con tre semi una zucca, 100 semi erano necessari per una canoa, ma  bastavano soltanto  6 semi per comprare una notte d’amore  Si dice di Montezuma,  che  avesse addirittura un miliardo di semi nei sotterranei del suo palazzo.

Secondo i medici aztechi era indispensabile per curare alcune malattie del corpo, ma soprattutto  per le malattie della mente. E forse non avevano tutti i torti perché, oggi, i medici, consigliano la cioccolata ai depressi  perchè riesce a dar loro la carica e a liberarli di un pò di malinconia.

Gli Aztechi erano convintissimi che quella pianta, dal grosso frutto pieno di semi, che cresceva rigogliosa nell’ombra della foresta, 356465gliel’avesse portata in dono, tanto tempo prima, il Dio Quetzcoatl e, proprio per questo motivo, la bevanda che ne avevano ricavato la chiamavano “Bevanda degli dei.”  Anche in questo caso dovevano aver ragione loro perché se ne convinse  perfino Linneo, che quando si trattò di dargli un nome scientifico la chiamò “Theobroma cacao L”, sicuro che  in qualche occasione se ne fossero cibati gli Dei.

Dove invece i nativi americani ci indovinavano davvero poco, erano le Profezie. Sicuramente tutti ricordano che avevano previsto la fine del Mondo nel 2012, che fortunatamente poi non c’è stata. Ma sfortunatamente per loro avevano previsto anche che Quetzcoatl sarebbe tornato sulla terra nel 1519. Disgrazia volle che proprio in quell’anno arrivasse invece dalla Spagna Herman Cortes. Quando se lo videro davanti, con quegli strani vestiti e  una lingua sconosciuta, Montezuma e la sua corte credettero veramente al ritorno di Quetzcoatl e non finivano più di fargli cortesie. Così prima gli offrirono un bel bicchiere di  cioccolata per ristorarlo dal viaggio e subito dopo Montezuma in persona regalò a Cortes addirittura un’intera piantagione di cacao.

Si sa come andò a finire. Oltre a distruggere il Regno e ad ammazzare Montezuma, quel soldataccio di Cortes si prese anche le piante del cacao e tutto tronfio ne fece dono a Carlo V.

All’inizio, in Europa, il cioccolato veniva sempre servito come bevanda, così come i Conquistadores avevano visto fare agli Aztechi, mischiandola al pepe e al peperoncino. Poi i monaci spagnoli, grandi esperti di infusi d’erbe  e di miscele, visto che quella bevanda era troppo amara, ci tolsero il chili e il pepe e ci aggiunsero  zucchero e  vaniglia. Era nato il cioccolato dolce e da quel momento in poi in Europa lo vollero tutti.

ENOP-0122I Conquistadores si erano portati via, fra piante strane, animali esotici e quintali d’oro, quasi mezza America, ma alla fine  portarono anche loro qualcosa nel Nuovo Mondo, la vite per esempio o gli animali d’allevamento, come le mucche, le pecore e il pollo… Chissà, forse per non sentire troppo la nostalgia di casa! Comunque, almeno in cucina, ci fu l’incontro di due culture perchè per il resto, dopo la crudeltà degli Spagnoli, della cultura india rimaneva poco.

Oggi la cucina messicana è ricchissima e molto conosciuta, ma occorre fare diverse distinzioni. Da una parte c’è quella, frutto di diverse e recenti contaminazioni con i paesi vicini, come  la Cal Mex e la Tex Mex, che hanno dato vita ai piatti più noti come i Nachos, i Burritos e le Quesadillas, cibi piacevolissimi, ma ormai tipici dei fast food e dei take -away.

Poi c’è quella, conosciuta come “Comida Prehispanica”, che è stata la meno soggetta  all’incontro con il cibo spagnolo e, anche se ancora è conosciuta, viene  però riservata ai  ristoranti specializzati o a particolari aree geografiche dove la tradizione si è mantenuta più viva. Oltre ai più  noti e tipici vegetali, usa alimenti poco comuni come le iguane, i serpenti a sonagli, i cervi, le scimmie ragno e alcuni insetti, cucinati ancora nello stile maya e azteco, come ad esempio le chapulines (cavallette) di Oaxaca, fritte nell’aglio con due tipi di peperoncino.

Infine c’è quella che si dichiara più autenticamente messicana ed è effettivamente nata dalla fusione e dall’incrocio dei modi della cucina spagnola e delle vecchie usanze precolombiane. Di questa non esiste un’ unica tipologia perché naturalmente  c’è una notevole differenza fra le zone interne e quelle costiere, ma se, da una parte, sicuramente come eredità spagnola, si ritrovano  tipi di carne come il manzo, il pollo o il maiale, dall’altra, l’influenza indigena, sarà sempre possibile rintracciarla nel chili, nei  peperoni, nel mais e nel cioccolato. Come rappresentante tipico di questo stile di cucina è stato scelto un piatto famoso, il “Pollo mole poblano”, nato a Puebla, sembra nel XVI secolo. Si racconta che le suore del convento Santa Rosa furono colte di sorpresa per l’inaspettata visita del Vescovo. Per servirgli un pasto adeguato alla sua carica, presero allora alla rinfusa tutti gli ingrediente e le spezie che trovarono nella dispensa, li mischiarono e riuscirono a fare una ricchissima salsa, al cioccolato, con la quale condirono l’unico volatile che possedeva il convento, realizzando così un anticipato esempio di cucina fusion col pollo spagnolo e il cioccolato azteco.

RICETTA DEL POLLO MOLE POBLANO per 4 personeChicken-Mole-Poblano

INGREDIENTI:  1 pollo, 1 peperoncino ancho, 1 peperoncino guajillo, 60 grammi di sesamo tostato, 25 grammi di mandorle, 25 grammi di arachidi non salate e senza buccia, 1/2 cipolla, 1 spicchio di aglio, 2 cucchiai di olio di mais, 25 grammi di salsa di pomodoro, 1/2 banana platano, 1/2 cucchiaino di coriandolo, 1 manciata di semi di finocchio, 3 chiodi di garofano, 1 cucchiaino di cannella, 50 grammi di cioccolato fondente, 1 cucchiaio di zucchero, 250 grammi di riso long rain, uvetta sultanina una manciata, tortilla q.b.

PREPARAZIONE: lessate un pollo. Quando è cotto spolpatelo eliminando pelle e ossa, sfilettate la polpa e mettetela da parte.

Private i peperoncini dei semi, e scottateli in un tegame antiaderente. Metteteli poi a bagno in acqua calda per 30 minuti per farli ammorbidire.

Fate dorare la cipolla dorata con l’aglio e i chiodi di garofano, aggiungete i peperoncini scolati e tritati, il sesamo tostato, le mandorle e le arachidi dopo averle tostate, l’uvetta sultanina rinvenuta in acqua tiepida e strizzata, la banana platano tagliata a rondelle e fritta in precedenza. Aggiungete la cannella, il coriandolo,i semi di finocchio, lo zucchero e la tortilla a pezzi.

Completate con la salsa di pomodoro,il cioccolato sbriciolato e fate restringere la salsa per un’ora. Al termine frullatela nel  mixer.

Lessate il riso e disponetelo su un piatto da portata. A lato  sistemate il pollo e conditelo con la salsa al cioccolato.

Mexico City, Paseo de la Reforma, Fountain to Diana the Hunter - Photo by SECTUR

Rosso di Sera

Bona-Sforza-1nIn Francia dovete chiedere una “Salad Piemontaise,” ma se siete in Russia, uno dei modi per averla al tavolo è  ordinare  un’ “Insalata alla Francese”. In Germania  invece, ve la serviranno solo se la chiamerete “Insalata all’Italiana” e in Spagna, per non sbagliare, ordinate un ‘Insalata Imperiale”.  La confusione regna sovrana e non è detto che parlandone si risolva il problema, ma almeno ci si può provare. Risalendo indietro al  tempo del  Rinascimento, quando la cucina era tutta italiana, troviamo  la solita principessina che andando sposa in terra straniera era solita portarsi dietro, oltre la dote, un  cuoco e qualche ricetta chic. In questo caso  si trattava  di Bona Sforza che  partiva da Napoli per andare a fare la Regina in Polonia. Non si sa molto di più, a parte il fatto che l’insalata ebbe gran successo, si diffuse nel Nord Europa e dopo alcuni secoli, tornò in Italia.  Da queste dubbiose e incerte origini l’insalata fu detta anche  “Alla Polacca” ed è rimasto uno dei modi in cui tuttora la potete ordinare in un ristorante russo.

Ma, per amor del cielo, non vi fate sentire dai Francesi: loro sono convintissimi che l’abbia inventata, verso la  fine del 19° secolo un cuoco piemontese per alcuni aristocratici russi, di passaggio in  Italia. Per l i francesi quindi resta ancora “l’Insalata alla Piemontese”, anche se loro ci hanno aggiunto, probabilmente, un pò di maionese in più. Ma nonostante il gran rifiuto, l’origine francese del piatto, anche se  in terre lontane, tornò a farsi strada.

E’ a meta dell’800 infatti che, Lucien Olivier, un cuoco francese, si reca a Mosca per aprire un ristorante e lo chiama l’Ermitage. Un  successo grande e  scontato perché, nella 92042013_San_galinbuona società dell’epoca, in cucina si parlava solo in francese. Agli italiani, ridotti ormai agli economici piatti della dieta mediterranea, era rimasto soltanto il compito di costruire le grandi capitali, come  S.Pietroburgo, a condizione però che si tenessero lontani dai fornelli. Una delle specialità con cui Olivier si era fatto il nome, era la “Cacciagione alla maionese”, una pietanza  semplice semplice, dove su un lato del piatto ovale  erano disposte  quaglie e pernici decorate con cubetti gelati del loro brodo e dall’altro lato code di gamberi imperiali coperti di maionese, preparata con l’olio di Provenza doc, spedito direttamente dalla Francia e, quà e là, a rifinire, qualche fettina di tartufo. Al centro del grande piatto un pò per divisione e un pò per decorazione, Olivier era solito innalzare  una piramide di patate, tagliate a fette decrescenti, intervallate  con spicchi di uova sode e sottaceti. Andò tutto bene fino al giorno in cui, uno sprovveduto nobilastro fece crollare le patate, che andarono a sprofondarsi, confuse e in disordine, nella maionese. Un colpo al cuore senza fine per l’estetica di Monsieur Olivier, l’inizio di un grande successo per il piatto melange russo – francese. La chiamarono dunque  “Salat Olivier”, altro nome con cui un tempo sarebbe arrivata, se richiesta, alla vostra mensa. Ma poi, dopo alcuni anni, dell’insalata  si persero le tracce e le dosi. Dopo la rivoluzione russa non era neanche più il caso di parlare di pernici, tartufi e gamberi imperiali, perchè si poteva rischiare di passare per capitalisti e magari andarsi a fare qualche anno di Siberia.

Ma arrivarono gli anni ’30 e un cuoco russo, che si diceva avesse imparato a cucinare da un allievo di Olivier, ripropose qualcosa di simile, per la nuova classe borghese che si faceva strada fra le file della burocrazia, chiamandola prudentemente “Stolichny Salat”, “l’Insalata della Città”o “Insalata della Metropoli”, un piatto dunque “per tutti” e ovviamente in versione “social- popolare”. Oggi è diventata un’insalata cult che si può mangiare  nelle osterie finto soviet  in cui mischiano petti di pollo coi piselli in scatola e la polpa di granchio. Certo le pernici non torneranno più e qualcuno ci toglie anche il granchio e colora l’insalata  d’arancione con la carota.

Modificata nelle forme, alleggerita nella sostanza, lei  la Salad, internazionale per eccellenza, ha  sempre  resistito  ai tempi nuovi e se, spesso privata di carne e pesce, non può più essere considerata una pietanza sostanziosa, è diventata invece, la regina degli antipasti con quel tanto di sfizioso, fresco e decorativo  che la rende  l’mmancabile benvenuta  in tutti i pranzi del periodo natalizio. Ricette?  C’è solo  l’imbarazzo della scelta, anche se, gli elementi fissi restano, in ogni caso, patate, piselli  e maionese. Qualcuno ci aggiunge il pesce, gamberetti o tonno sbriciolato, qualcuno il petto di pollo a striscioline  o i wursteln a rondelle, e perché no, anche dadini di mortadella! Poi via a sbizzarrirsi con le verdure e possono essere fagiolini, cetrioli, cipolline, zucchine e via di seguito.

Quella che abbiamo scelto l’abbiamo chiamata  Rosso di Sera, per quella sciarpina di prosciutto rosso che il nostro  Pupazzo si è voluto stringere attorno al collo.

patate-carote-piselliINGREDIENTI per 8 persone:

500 grammi di patate, 200 grammi di carote, 200 grammi di pisellini  primavera, 100 grammi di olive verdi, 500 grammi di maionese, 200 grammi di  rapa rossa lessata, due cetriolini sotto aceto, 6 cipolline sott’olio, mezza cipolla cruda,una manciata di prezzemolo.

PER DECORARE: una manciata di olive nere, due strisce di prosciutto magro,  qualche chicco di mais, un mazzetto di asparagi, ovviamente surgelati, 1 uovo.

Fate lessare separatamente  patate e carote. Per cuocere i piselline mettere in una padella con olio extra vergine di oliva mezza cipolla e appena si è imbiondita aggiungere i piselli, salare, aggiungere una manciata di prezzemolo e coprire d’acqua.Entro 10 minuti dovrebbero essere cotti e debbono essere scolati dell’acqua residua. Rassodate l’uovo  coprendolo di acqua fredda e lasciatelo immerso per 6 minuti circa dopo che l’acqua ha raggiunto il bollore.

Quando le patate e le carote sono cotte, tagliarle a dadini e  una volta fredde mischiatele ai pisellini, già raffreddati anch’essi, alle rape rosse, ai cetriolini, alle cipolline sottolio, alle olive verdi e all’uovo sodo, il tutto, verdure e uovo    tagliati a piccoli pezzi.

Mescolate il tutto con due terzi della maionese eventualmente allungata con un cucchiaio d’acqua, se fosse troppo densa.

Formate due palle di diverse dimensioni e  sistematele in un piatto ovale congiunte su un lato,  nel senso della lunghezza.  Sovrastate la palla più piccola con un rettangolo di verdure leggermente inferiore di dimensioni, come da figura. Ricoprite le due palle con la restante maionese e utilizzate le olive nere, tagliate a metà nel senso della lunghezza, per ricoprire il rettangolo di verdure che diventerà il cappuccio del Pupazzo. Utilizzate altre olive spaccate a metà per fare gli occhi  e la bocca del pupazzo stesso. Alla congiunzione delle due palle di verdure che sono diventate  la testa e il corpo  del Pupazzo, appoggiate in forma di sciarpa le striscioline di prosciutto e utilizzate  2 asparagi, opportunamente lessati, per fare le braccia. Infine, con qualche pisellino sottratto all’impasto e qualche chicco di mais disegnate tre bottoni sulla pancia  del Pupazzo.

Un grosso dispiacere? Distruggere il Pupazzo per mangiarselo!

A proposito, ma come si chiama in Italia quest’insalata? Ovviamente “Insalata Russa”, ma chissà perché, se è vero che l’hanno inventata i Piemontesi.

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El Pavon de las Indias

montezumaIn Europa non li conosceva  ancora nessuno quando in Messico, alla corte di Montezuma, se ne consumavano  1000 al giorno, di cui una parte era destinata ai dignitari e l’altra agli uccelli rapaci che il sovrano allevava. Il popolo, invece, come sempre accade, si doveva accontentare di poco e per lo più mangiava qualche schiacciatina di mais. Comunque era già una lunga conoscenza, quella che i messicani avevano con il tacchino, perché risaliva ormai a più di 1000 anni prima. Da animale selvaggio che scorazzava liberamente nelle praterie e nei boschi, l’avevano reso domestico per ammorbidirgli le carni e tenerlo a portata di mano quando, con le  sue colorate piume, dovevano adornare copricapi e lance.

Sembra che il primo a portarlo in Europa sia stato Colombo nel 1511, ma già pochi anni dopo, nel 1525, columbus_ships_1992era stato  oggetto di un dotto “Summario de la Historia Natural de las Indias Occidentales”, scritto direttamente dal Governatore di Hispaniola. Certo che quell”animale dava da pensare un po’ a tutti, per quanto era strano! Dormiva sugli alberi e somigliava di sicuro a un grosso pollo, ma faceva anche la ruota, come fosse stato un pavone. Più tardi avrebbero anche scoperto che  i maschi si disinteressavano della prole mentre le madri erano tenerissime e  spesso rischiavano di morire di fame per non allontanarsi dai piccoli che tenevano sotto le ali come in un’incubatrice. Comunque per non far torto a nessuno, in Francia lo chiamarono “Le Coq d’Inde” e in Spagna  “El Pavon de las Indias”, convinti ancora come erano che glielo avessero portato dall’India.

In ogni caso  la diffusione era stata rapidissima e già nel 1524 lo troviamo in Inghilterra sulla tavola di Enrico VIII  mentre, nel 1565, i monaci di Bourges, in Francia, aprirono  un grosso allevamento che gli dovette andar subito a gonfie vele, perchè pochi anni dopo, il tacchino fece il suo ingresso a corte, ospite d’onore alle nozze del Re Carlo IX con Elisabetta d’Austria. E Carlo, da quel momento lo dovette tenere in grande considerazione perché, quando si trattò di fare un dono di riguardo al Papa Gregorio XIII, gli inviò 12 tacchini.

tacchino[1]Pur essendo arrivato  trionfalmente in Europa, il tacchino non si era dimenticato della sua terra di origine e seguitava  ad essere il pranzo di gala per i nativi americani, che, secondo la leggenda lo fecero conoscere ai “Padri Pellegrini” con i quali generosamente lo spartirono il giorno che questi riuscirono ad ottenere il primo raccolto e ne vollero rendere grazie a Dio.

Fino al secolo XIX il tacchino fu cucinato in modo abbastanza semplice, intero, arrosto o allo spiedo, poi considerato che era il cibo delle grandi occasioni, e a Natale era d’obbligo, qualche famoso cuoco pieno di inventiva e di complicanze come Escoffier e Ali Bab pensarono di adoprarlo come uno scrigno, racchiudendovi dentro  i più complicati, fantasiosi  e stravaganti ingredienti: era nato il “tacchino farcito”. E furon prugne, castagne, erbe provenzali, carni miste, mirtilli  e chi più ne ha più ne metta  tanto, “Semel in anno licet insanire ” e Natale viene una volta sola.

Tacchinella arrosto ripiena alla frutta

Ingredienti per 4 persone

1 tacchinella  di circa 2 kg già svuotata, 100 grammi di burro fuso, 2 cucchiai di olo di oliva extra vergine, 200 grammi di mollica di pane casereccio raffermo, 2 mele renette, 120 grammi di prugne secche snocciolate, 60 grammi di gherigli di noce, il succo di un limone, 1 cucchiaio di pepe verde secco, salvia,rosmarino, timo, sale, pepe, .

Per legare la salsa: 1 cucchiaio di burro e un cucchiaio di farina.

Si lavano le prugne e si mettono in acqua calda sino a quando si ammorbidiscono.

Si sbucciano le mele, si tagliano a piccoli pezzi e si cospargono di limone per non farle scurire

Si taglia a pezzetti il pane e si cosparge di burro fuso, mescolandolo in una ciotola.

ricette-natale--tacchino-ripieno-arrostoAlla mollica di pane si aggiungono le mele, le prugne a pezzi, le noci tritate, un’abbondante spolverata di pepe, un cucchiaio di sale  e si mescola.

Si lava e si asciuga la tacchinella, si insaporisce all’interno con sale e pepe e si riempie con la farcia. Si cuciono i due fori praticati nella tacchina con l’apposito filo bianco resistente  e si legano  ali e cosce aderenti al corpo.

Si tritano insieme pepe verde, gli aghi del rosmarino, 6 foglie di salvia e 1 cucchiaino di timo e si fanno aderire sulla superficie esterna della tacchina, unta completamente di olio extra vergine di oliva.

Si pone la tacchinella  in una teglia possibilmente ricoperta di una griglia interna e si pone nel forno già scaldato a 180°.

Dopo circa 1/2 ora di cottura è necessario coprire il petto della tacchina con carta di alluminio che verrà poi tolta durante l’ultima ora di cottura.

Complessivamente la tacchina dovrà rimanere in forno circa 3 ore e 1/2 e durante questo tempo andrà inumidita spesso con il fondo di cottura e, se la teglia non ha la griglia, occorre rigirarla ogni mezz’ora circa.

A metà della cottura si spolverizza di sale.

Dopo la cottura si trattiene la tacchinella  nel forno caldo, ma spento sino al momento di portarla in tavola.

Si toglie il fondo di cottura dalla padella e lo si sgrassa, eventualmente dopo averlo raggelato, per fare in modo che la parte grassa affiori in superficie, si aggiunge ad esso il cucchiaio di farina, il burro e si fa amalgamare a fuoco caldo.  Al termine si aggiunge 1/2 bicciere di cognac e uno spruzzo di salsa Worcester che si fanno sfumare sul fuoco.

Si adagia la tacchinella sul piatto da portata e si porta in tavola, dove si affetta in presenza dei commensali. Su ciascuna fetta si versa infine qualche cucchiaio di salsa.

TenochEstrella