Dal Rinascimento… La zuppa di mele per Caravaggio!

Per misteriose e rapide vie di comunicazione, di cui  non c’è memoria, la sua fama  si era sparsa in  Europa e  gli artisti del nord cominciarono ad affluire a Roma. Venivano dalla Francia, dalla Spagna  e  dall’Olanda soprattutto e, in seguito, molti sarebbero diventati, magari a loro insaputa, Caravaggeschi. Ma per il momento ciò di cui andavano in cerca  era il genio che aveva stravolto la pittura e reinventato la luce… Si dovettero accontentare di vedere le sue opere, a San Luigi dei Francesi, a Piazza del Popolo, presso i nobili signori che avevano acquistato le sue tele…   perché il genio non si trovava. Lo cercò disperatamente anche Rubens…   Che sulle tracce di  Caravaggio andò a vedere il quadro dello scandalo, che la famiglia Lelmi aveva rifiutato. Si diceva che Caravaggio ne avesse fatto una mezza tragedia per quel rifiuto, ma  la Madonna  col volto e il ventre gonfio della  prostituta affogata nel Tevere … non si poteva proprio accettare. Rubens invece rimase quasi in adorazione  di quella scena così spoglia e così ricca di umanità dolente, di quel modo di comporre  dove in primo piano c’è un personaggio secondario, la Maddalena piegata su se stessa dalla sofferenza,  mentre alla Madonna, su quel lettino  stretto e i piedi nudi, il pittore aveva tolto ogni sacralità. Quando tornò a Mantova, Rubens era ancora talmente  colpito che convinse il Duca ad acquistarla senza aver mai visto il quadro… Ma di Caravaggio non era riuscito  a trovare traccia! Lui era in fuga, chissà se stava ancora nelle tenute  del Lazio dove i principi  Colonna lo nascondevano, depistando i suoi inseguitori o era già arrivato a Napoli. La condanna stavolta era stata durissima. La decapitazione e, chiunque lo avesse incontrato,  era autorizzato a farlo… Adesso Michelangelo Merixio aveva perso  la sua spavalderia e questo  si vede già nella “Cena in Emmaus”, che dipinse durante la fuga. Cupa, quasi senza colore… I personaggi che  si stringono in tondo come in un ultimo istinto di difesa, quel pane  spezzato sulla tavola che è già  disfatto…  Poi, già in salvo a Napoli, arriveranno gli incubi, di cui  lui  negli anni a venire cercherà di liberarsi, dipingendo quegli ossessivi personaggi  con la testa mozzata, Golia, Oloferne  o Giovanni Battista, dove il suo macabro autoritratto prende spesso il posto del condannato.  Va a capire cosa  era passato nella testa “in pericolo” di  Michelangelo…Avrebbe potuto essere felice a Roma, anche se ogni tanto qualcuno  criticava i suoi quadri più “stravaganti”… Lavorava sempre parecchio con l’ammirazione e l’appoggio dei potenti… Ma aveva anche un caratteraccio,  pronto a infiammarsi e a cacciarsi nei guai. Di giorno le sue frequentazioni, erano almeno rassicuranti, Cardinali, Principi e i Priori delle Chiese dove andava a dipingere… Ma  appena arrivava la sera non ce la faceva a rimanere lontano dalle osterie, dalle prostitute,  dal gioco d’azzardo… Chissà, forse sperava di trovare gli ambienti  semplici e genuini della sua infanzia povera, lontano dall’etichetta e dai formalismi dei grandi apparati e invece finiva sempre per bere troppo e litigare con qualcuno…

 Una sera aveva lanciato un piatto pieno di carciofi contro un garzone d’osteria, un giorno aveva preso a bastonate un  amico del Cardinale Dal Monte che li ospitava tutti e due… Non era la prima volta che sulla scena  arrivavano i coltelli,  una volta ci aveva ferito un notaio che gli voleva portare via la sua donna, un’altra era finito all’ospedale affermando spudoratamente di essere caduto sulla sua spada, ma quella sera di maggio il limite era stato superato! Michelangelo ne era uscito ferito, ma il suo avversario era proprio morto…. Ed ora scappava dolorosamente, lontano da Roma…  la sua seconda Patria e, per non pensare, dipingeva un capolavoro triste dietro l’altro. Naturalmente non c’era più alcuna traccia dei canestri di frutta vividi di colori nè l’incanto dell’ Angelo  bianco  che durante la “Fuga in Egitto”, suonava la nanna nanna a Gesù! Ma c’era sempre quell’ “occhio fotografico”  che anticipava di  qualche secolo le istantanee della Polaroid, in cui la realtà e, sempre più spesso il male di vivere, si fissavano sulla tela nell’istante stesso in cui arrivava la scena clou!  Una volta era riuscito a sorprendere un ragazzo nel momento preciso in cui veniva punto da un ramarro e aveva scovato Narciso sognante nel bosco, che si  innamorava nella sua immagine riflessa! A Napoli  in quella chiesa barocca oggi così morbida ed elegante, fece irrompere drammatiche  e concitate  le figure trasversali in volo di due angeli, mentre nella parte inferiore le “Sette  opere  di misericordia”, incredibilmente serrate le une alle altre, sembrano  vivere in simultanea  in uno stretto vicolo napoletano. Dopo un anno Michelangelo  salperà per Malta, il Principe Colonna  gli trova un contatto con il gran maestro Alof de Wignacourt, a cui il pittore fa anche un ritratto. Se riuscirà a farsi nominare Cavaliere del Sovrano Militare Ordine  avrà anche l’immunità e potrà tornare a Roma… Era un piano quasi perfetto se Michelangelo non avesse litigato con un Cavaliere di rango superiore…  Poteva essere una sciocchezza… ma venne fuori tutto il suo passato e l’imprigionarono. Lui riuscì  avventurosamente a scappare, lasciando però  nella cattedrale di La Valletta  il suo quadro più grande la  Decollazione di san Giovanni Battista, un altro dei suoi quadri incubo dove il rapporto figure-spazio è rovesciato  creando  ampie zone di buio  e una scena del dramma con qualche luminoso  sprazzo di colore  e il resto immerso nella penombra.

A Siracusa  sembra per un momento trovare la serenità, ospitato da un vecchio amico e a spasso per le Latomie… Sarà lui a chiamarle poeticamente “L’orecchio di Dioniso” e in esse  ambienterà quello che da alcuni critici è ritenuto il suo capolavoro, ” Il Seppellimento di Santa Lucia”… La scena sembra ambientata all’ingresso e sono i due enormi becchini in primo piano a dare il senso  di una  realtà  avvolta nel male. La Santa, qusi schiacciata in terra  sembra avere un taglio sul collo, ma osservando da vicino la trama della pittura c’è invece il ripensamento di una testa  che in una prima versione era staccata… Ma, nonostante il ritmo opprimente delle figure è la luce la vera protagonista non più orientata ed uniforme come nelle opere romane, ma tragicamente rivestita di diverse  tonalità sanguigne e ocra  che quasi cancellano le figure..

Dalla Sicilia tornerà a Napoli dove qualcuno lo sfregerà e… come una profezia, si diffonderà la voce che è morto. Invece gli arriva la notizia che è in arrivo la grazia del Papa. Pazzo di gioia prenderà la prima nave in partenza per Porto Ercole… Pensa di scendere a terra a Palo, nel Lazio e di lì raggiungere Roma con un  tela, Il “San Giovanni Battista” della Galleria Borghese, che si trascina appresso e sarà il prezzo da pagare … per quella sospirata  libertà. Ma  appena arriva a Palo lo  fermano per accertamenti… mentre la nave riparte. Dopo due giorni con un’altra  nave che i principi Orsini gli mettono a disposizione cercherà di raggiungere  i suoi preziosi bagagli a Porto Ercole. Ma è troppo tardi, la nave è appena ripartita e lui morirà su quella spiaggia malsana poco dopo.. forse un’infezione, forse la malaria… mentre la grazia arriverà 4 giorni dopo.

Da allora lo dimenticarono… per più di trecento anni… era una persona  imbarazzante ed era un genio troppo moderno per il barocco che stava arrivando  con il suo tripudio di luci e per il severo classicismo che  venne dopo. Ci volle  la pittura rivoluzionaria del primo ‘900 e poi fu possibile riscoprire Caravaggi0… quasi fosse un contemporaneo con cui poter condividere valori e tecniche, una realtà che non poteva esistere senza le luci e le ombre con cui lui  l’andava a scoprire e la sua infinita capacità di cogliere gli attimi fuggenti…2223

Ripensando alle sue nature morte abbiamo pensato  di dedicargli un piatto rinascimentale preparato con la frutta, appena riadattato dalla ricetta del grande Bartolomeo Scappi..

MINESTRA DI MELE

INGREDIENTI per 4 persone: 1 Kg e 1/2 di mele renette, 1 ramoscello di finocchio selvatico, 1 gambo di sedano, 1 cipolla rossa di Tropea di piccole dimensioni, 250 grammi di pancetta, olio extra vergine di oliva a piacere, sale  e pepe nero q.b.

PREPARAZIONE: sbucciate le mele e mettete il torsolo e le bucce in un pentolino coperti di acqua. Dovranno bollire per circa un quarto d’ora a fuoco basso. Poi filtrate il liquido e mettetelo da parte. Soffriggete  nell’olio, in un tegame ampio, la cipolla, il sedano tritato e la pancetta tagliata e dadini. Il fuoco dovrà essere basso e la cottura prolungata per non bruciare la cipolla. Appena avrà assunto un colore dorato aggiungete le mele tagliate a pezzi e fatele insaporire per qualche minuto ,poi aggiungete il liquido ricavato dai torsoli e dalle bucce, il rametto di finocchio selvatico e  se necessario altra acqua per coprire il composto. Fate cuocere finchè le mele non siano del tutto disfatte.  Al termine la minestra si dovrà presentare con  una densità cremosa, pertanto se l’acqua fosse troppo abbondate fatela restringere prolungando per qualche minuto la cottura. Togliete allora il rametto di finocchio selvatico,aggiungetene per decorazione un altro fresco e servite  la minestra calda.

Carpaccio di Cappesante … da Heinz Beck a “La Pergola”!

4-romecav_aerial_at_night-lowres1La riconciliazione col tempo c’è stata, ma il perdono… quello rimane comunque difficile. La lunga costruzione rettangolare, priva di  una qualunque identità architettonica, se non quella dell arroganza, si è rome-panorama-hilton-st-angelo-12-m5-tnviolentemente istallata sulla collina di Monte Mario che doveva rimanere area verde sulle pendici della città. Sicuramente non è stato l’unico abusivismo edilizio della zona ma  certamente il più grave perchè, se non altro, i condomìni per la burocrazia emergente, si sono collocati un po’ fuori vista, quasi sul retro della collina… Di fronte a una cittadinanza ostile, ma impotente alla forza delle multinazionali e complice, una prona amministrazione capitolina, l’Hotel Cavalieri Hilton vide la luce nel 14941_55_b1963, con arredi  anomimi e una grande piscina, anch’essa status symbol ricavato fra gli alberi  sradicati. “Con la sua eccezionale vista su un panorama, che nel corso dei secoli ha ispirato e incantato milioni di visitatori, il Rome Cavalieri Hilton è l’indirizzo più prestigioso per il vostro soggiorno nella capitale..”. Questo recitavano i depliants pubblicitari  e il sito internet… Peccato che per chi dalla città si affaccia e guarda Monte Mario, il paesaggio non è più tanto sublime.

Col tempo tuttavia molte cose sono cambiate. Un management più preparato e intelligente ha stabilito con la città un rapporto che all’inizio sembrava impensabile, sia per la netta frattura fisica fra città e albergo, fuori dal tessuto connettivo dell’area metropolitana, sia per la vocazione dell’Hilton tutta indirizzata alla sua eterogenea clientela internazionale. 14_012440_4Qualcuno col tempo si è reso conto che quegli spazi così ampi e dotati di tanti servizi a livello ottimale, potevano anche estendere la loro  iniziale limitazione e trasformarsi in aree multimediali per le più svariate attività. Le mostre antiquarie ad alto livello, le feste per la buona società, ma soprattutto il “Corso triennale per sommeiller” hanno riconciliato l’albergo con la città che ormai non lo sente più cosi estraneo…  Si è anche aperto ai ragazzi delle scuole alberghiere che vengono a imparare l’organizzazione dei servizi, dall’accoglimento della clientela alla tecnica di gestione del personale… Poi nel tempo sono avvenute altre cose importantissime… La trasformazione degli arredi interni con la ricerca spasmodica, ma sempre più accurata di mobili e 14_012440_1oggetti che nobilitassero sia gli spazi privati, come le suite e le camere da letto, sia  gli spazi collettivi, dalla hall alle sale di ricevimento alle sale conferenze e al ristorante. Oggi basta guardarsi in giro per ammirare i rigidi, borchiati tavoli impero mescolati con mano quasi sempre sicura alle ricche poltrone Luigi XV… la ricca collezione degli oggetti Gallé e le porcellane di Sevres… Ma dove l’albergo ha dato il meglio di sé è stato nell’acquisire  quadri di grandissimi autori e arazzi rari, distribuiti  nelle suite e fra le varie sale comuni  Acquisti abbastanza recenti sono state tre grandi tele del giovane Tiepolo che  stavano rischiando di  disperdersi, “Ercole che soffoca TerraAnteo, “Apollo scortica Marsia”,”Ulisse scopre Achille fra le figlie di Licomede.” Anche questo è stato un altro motivo di riavvicinamento alla cittadinanza che può entrare liberamente per ammirare le opere d’arte e, se nel frattempo c’è qualche iniziativa eno-gastronomica, diventa un sottile piacere abbinare le due cose. Non c’è dubbio, ci ha messo parecchi anni ma l’impegno di cultura, buon gusto e apertura  sociale dell’Hilton, per riscattare quel brutale affaristico impatto con la grande capitale, è stato di sicuro eccezionale. Il suo sforzo alla fine è stato riconosciuto e premiato perché è entrato nel prestigioso circuito del Waldorf Astoria sotto il prestigioso nome “Rome Cavalieri Waldorf Astoria Hotel & Resort.”

Ma c’è un altro  prezioso fattore che ha fatto salire alle stelle le quotazioni dell’albergo ed è la sua cucina, con il ristorante “La Pergola”  affidato a uno dei più grandi Chef europei, Heinz Beck, che, con le sue scelte  creative, con le sue composizioni che sembrano ora vicine allo zen, ora naturalistiche come  il bosco di “Terra,” ha creato un dibattito e un interesse che non accenna a placarsi. Fra chi non lo capisce e chi l’adora, c’é chi soprattutto riflette sulla scelta rigorosa delle materie prime che  Beck va a sciegliersi personalmente  ogni mattina al mercato per evitare tutti quei cibi contraffatti e avvelenati che offendono la natura. Una filosofia di vita, dunque e un insegnamento gioioso, che cerca di trasmettere  attraverso la gamma delle senzazioni che, per mezzo dei piatti che offre, coinvolgono vista, palato e piacere di un posto dove tutto tende alla perfezione, dall’arazzo Aubusson alle composizioni di fiori in mezzo alla sala, alle raffinate antiche stoviglie, ma soprattutto  attraverso quella vista mozzafiato dove tutte le sere, per il suoi clienti, l’albergo “prende in prestito, “come dicono i giapponesi, la città di Roma dominata e avvolta dalla cupola di Michelangelo.

600403_474967622533108_1662203666_nPer concessione del “Rome Cavalieri Waldorf Astoria Hotel & Resort,” il piacere di presentare:

CARPACCIO DI CAPPESANTE SU AMARANTO AL MAIS NERO CON OLIO ALLO ZENZERO

INGREDIENTI per l’amaranto: 200 grammi di mais nero, 1000 ml di acqua, 200 grammi di amaranto, 2 cucchiai di salsa di soia.

INGREDIENTI per le capesante: 1 radice di zenzero, 10 grammi di lime, olio di oliva extra vergine.

INGREDIENTI per l’amaranto fritto: 60 grammi di amaranto, olio extra vergine di oliva. INGREDIENTI per la guarnizione: fiori eduli, insalata riccia, rucola.

LAVORAZIONE:heinz-beck_carpaccio-cappesante_lapergola-hilton_-1 1 – L’Amaranto: pulire il mais nero e metterlo nell’acqua fredda, portare a ebollizione e lasciar sobbollire per un’ora e mezza fino ad ottenere un brodo di color nero,aggiungendo l’acqua necessaria per mantenere 800 ml di liquido. Filtrare il liquido,aggiungerlo all’amaranto e portare a ebllizione. Far cuocere per circa 40 minuti e correggere il gusto con 2 cucchiai di salsa di soia e del sale, se necessario. 2 – Le Cappesante: pulire le cappesante accuratamente togliendo anche il corallo,asciugarle e tagliarle a rondelle. Pelare lo zenzero,grattugiarlo e ricavarne un cucchiaio di succo strizzandolo in un panno  pulito. Aggiungere il succo di lime e 1 cucchiaio di olio extra vergine di oliva. Emulsionare il tutto e marinare le cappesante salandole leggermente. 3 – L’Amaranto fritto: friggere l’amaranto nell’olio extra vergine di oliva a 180°C e poi disporre su una carta assorbente per fare asciugare l’olio. PREPARAZIONE DEL PIATTO: versare in uno stampo rettangolare 2 cucchiai di amaranto ancora caldo, distribuendolo bene con l’aiuto di un cucchiaio . Togliere l’amaranto dallo stampo e distribuirvi sopra 6 fette di cappesante. Aggiungere l’amaranto fritto,guarnire con salsa e qualche fiore edule.

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La Regina Ester e le Orecchie di Amman.

4851271438_5760aea81c_zNonostante la tradizione che vuole gli Ebrei a Venezia, quasi all’inizio della sua  fondazione, quelli che nel X secolo si incontravano  sulla riva orientale di Rialto a commerciare  e prestate sodi ai primi armatori veneziani, li dobbiamo considerare, in realtà, come “pendolari d’avanguardia”. Aver casa e dormire a Venezia non era tanto facile  perché la gente, forse istigata dai preti, poco li tollerava. Completamente sfatata l’ipotesi che la Giudecca fosse il loro quartiere perché l’etimo risale alla radice “giustizia” e  non Giudea. Di sicuro Venezia  aveva anche un forte spirito cristiano che, come un po’ in tutta Europa, tendeva a emarginare gli ebrei, ma  aveva anche un grande senso pratico e sapeva che difficilmente avrebbe potuto fare a meno, per i suoi commerci e per le nascenti basi d’oltremare, dei finanziamenti degli Ashkenaziti,  gli ebrei che scendevano dalla Germania. Così un po per volta finì per accettarli.

Alla fine del 1300, gli Ashkenaziti erano in buona posizione e in pianta stabile, con uno spazio abitativo su un isolotto in città e un Cimitero tutto loro al Lido. Peccato che un Prestatore di soldi, un banchiere come più eufemisticamente  si dice oggi, combinasse qualche pasticcio finanziario, che portò alla revoca del permesso di soggiorno illimitato. Ovviamente in città ci potevano venire, – c’era troppo bisogno di loro – ma per periodi limitati e portando, per farsi riconoscere e  starne alla larga, un cerchio giallo sul mantello e un berretto giallo che poi divenne rosso. Per tutto il 1400 Venezia riuscì a tenerli fuori città, ma poi fu sopraffatta, quando si ruppero gli equilibri fra i principi italiani e gli stranieri cominciarono a invadere la Penisola. Il Papa Giulio II° alleato della Francia ben presto conquistò l’entroterra veneziano, mettendo in fuga le popolazioni  e soprattutto  gli Ebrei che trovarono  rifugio a Venezia.

Questa volta fu gioco forza accettarli in città.

Per loro fu creato, primo esperimento nel suo genere, il Ghetto Nuovo, nel quartiere di Cannareggio, dove all’origine c’era una fonderia,”geto”, in dialetto veneziano,  che stava a significate la gettata del metallo. Lì abitavano, in condizioni di apartheid, con due soli ingressi che di notte venivano chiusi e sorvegliati da guardie cristiane, pagate per colmo di ironia, dagli ebrei stessi. Comunque era dato loro il permesso di  gestire i banchi di pegno e vendere la  “strazzeria”, quella che oggi  si è nobilitata nel “Vintage”. Infine potevano fare i medici e in questo caso avere più libertà di uscire dal  Ghetto anche di notte.

Poi la comunità ebraica si arricchì  di nuovi gruppi. Prima arrivarono gli ebrei  vittime della riunificazione  della Spagna e della scarsa tolleranza dei nuovi Cristianissimi Regnanti. Poi i commercianti dell’Africa e poi i Romani, cui  993_1037ala carità  del Papa e della Curia, stava rendendo impossibile la vita. Quando il Ghetto Nuovo risultò insugfficiente furono assegnati agli ebrei altri spazi che presero il nome di Ghetto Vecchio e Ghetto Novissimo. Ma nonosrante la contiguità ogni gruppò riusci a mantenere le sue tradizioni, le sue cerimonie, distinte sinagoghe e…la sua cucina. Del resto erano più di mille e cinquecento anni che li avevano frantumati e  a parte  la conservazione religiosa, i vari gruppi della diaspora avevano finito per assimilare cultura, usanze e cibo dei paesi ospitanti. Pensate che spettacolo doveva essere girare per il ghetto e trovarsi vicino vicino un ebreo ashkenazita col suo severo vestito nero e un Sefardita dalle ricche vesti di broccato  e il rutilante turbante. L’inizio del  XVII secolo fu un’età dell’oro, non solo per Venezia, ma anche per gli Ebrei. Erano tutti contenti perchè la Serenissima incassava  tasse altissime e gli ebrei erano sempre più ricchi.

Poi la peste e il  lento declino di Venezia ormai ristretta nel suo mare chiuso, mentre i grandi traffici solcavano l’Atlantico. Gi ebrei cominciarono a sparpagliarsi. Molti andarono a Livorno, molti ad Amsterdam e ad Amburgo…   e alla fine arrivò Napoleone che sotto l’egida della fraternitè e dell’egalitè aprì  o … come dire, chiuse  il Ghetto.

Ciononostante una piccola, elitaria comunità è rimasta a Venezia, così vicina al centro e già così diversa. Si traversa un ponte, si incontra una piazza e l’ atmosfera cambia, C’è più tranquillià e si passeggia con piacere. Piccoli caffè e ristoranti che sono poco più di osterie, ma simpatici, piacevoli e pieni di specialità ebraiche, ormai  forse un po’ confuse fra loro… chissà quali saranno sefardite  o aschkenazite, ma in ogni caso ci sentiamo felicemente distanti anni luce dai locali del turismo mordi e fuggi che è solo a poche centinaia di metri più in là.

michelangelo_aman_01aPoichè  oramai si avvicina Carnevale abbiamo voluto scegliere, all’interno del Ghetto, questi deliziosi dolcetti, che si mangiano in questo periodo e che somigliano alle frappe, anche se ripieni e  ritaglati,  che hanno però un nome insolito e  un po’ minaccioso: “Le orecchie di Amman.” Si tratta di un dolce antichissimo ché é legato alla storia della Regina Ester, un ‘ebrea divenuta nel V secolo avanti Cristo, la favorita del re Achemenide Serse , riportato nella Bibbia come Assuero.

La storia narra come il potente primo Ministro del re, Amman, avesse deciso, all’insaputa del re stesso, di mandare a morte l’intera comunità ebraica, che viveva nel regno in condizioni di semi schiavitù. Fu Ester, di cui il re ignorava l’origine ebraica, a sfidare le rigide regole di Corte e a presentasi al Re, senza essere stata convocata, dopo tre giorni di digiuno. Con la sua grazia e la sua dolcezza riuscì a sventare le mire del perfido Amman e a salvare il suo popolo. Amman fu crocifisso e questa storia biblica, così famosa, si può ancora andare a vedere in un pennacchio della Cappella Sistina, effigiata da Michelangelo.

Ma facendo un piccolo passo indietro, visto che Ester e tutto il popolo ebraico, avevano digiunato per tre giorni, subito dopo lo scampato pericolo, cercarono di rifocillarsi e  prepararono questi dolcetti che vollero chiamare, sia pure con un pò di comprensibile crudeltà “Le orecchie di Amman”. Nel Ghetto ebraico è facile trovarli durante la festa di Purin, che ricorda la storia di Ester e la salvezza del Popolo Ebraico e che cade fra il mese di febbraio – marzo, proprio come si diceva, in coincidenza con i nostro Carnevale. Questo è il motivo per cui  ci è sembrato giusto, fornire adesso, la ricetta.haman1

ORECCHIE DI AMmAN

INGREDIENTI.

Per l’impasto: Farina bianca (250 g), zucchero (2-3 cucchiai), burro(150 g), latte (3 cucchiaini), essenza di vaniglia (3-4gocce), tuorlo d’uovo (1), albume d’uovo (1).

Per il ripieno: Semi di papavero(150g), miele (2 cucchiai), zucchero (4 cucchiai), uvetta (4 cucchiai), limone grattugiato (1), succo di limone (2 cucchiai), latte (170 ml), burro (1 cucchiaio abbondante).

PREPARAZIONE:

In una zuppiera mescolare la farina, lo zucchero e l’essenza di vaniglia. Aggiungere il burro tagliato a piccoli pezzi, lavorare il tutto aggiungendo il latte. Continuare a lavorare l’impasto fino a dare alla pasta una forma rotonda.

A parte preparare il ripieno: unire i semi di papavero al latte facendoli bollire per 15 minuti. Aggiungere il miele, lo zucchero, l’uvetta, il burro e cuocere per altri 5 minuti. Infine il succo e la scorza di limone. Distendere la pasta in modo che sia sottile, disporre in una pirofila infarinata arrotolarla su sé stessa, spennellare con l’albume ben sbattuto e cuocere in forno per 20-25 minuti a 190°- 200°.

Tagliare, una volta raffreddato il tutto, a forma di triangoli.

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