Ai tempi di Maria Carolina

624px-Angelika_Kauffmann_Portrait_Maria_Karoline_von_Österreich_VLM_offEra sbarcato a Napoli con gli Aragonesi, sul finire del 1300, quando i sovrani Spagnoli, che venivano a prendere possesso del loro nuovo regno, ci riempirono le stive delle  navi.  Dovevano aver saputo che da quelle parti si mangiava  poco e male e così si  erano fatti un po’ di provviste. E non erano di sicuro  tutte balle quelle che  li avevano spaventati perché, volenti o nolenti, vista la scarsità di cibo e di quattrini, a quell’epoca i napoletani  erano già tutti a dieta mediterranea a base di verdure e cavoli soprattutto, tanto da essere stati soprannominati, con una certa cattiveria, “I Mangiafoglia”.  Ma  nonostante  la fame di Napoli,  il riso degli Aragonesi  non fu molto apprezzato anche perché, nel frattempo, stava arrivando, sia pure per altre vie, la pasta. che sarebbe ben presto diventata il simbolo della gastronomia napoletana. Al riso dunque fu riservato uno scarso successo e se non sparì del tutto dalla circolazione si deve al fatto che, la grande Scuola Medica  Salernitana, ne scoprì le virtù  curative  e gli trovò largo impiego nella cura delle malattie gastro- enteriche. Ma questo non fece che aumentare la diffidenza dei napoletani  che, ben presto,  finirono per  associare il riso alla malattia stessa. Dopo un po’ il riso  si rassegnò, prese altre strade e si trovò benissimo negli acquitrini del Nord  Italia, dove soprattutto in Veneto, Piemonte e Lombardia, diventò uno dei cardini dell’economia e un alimento privilegiato nella preparazione dei ricchi piatti riservati alla nobiltà e alla borghesia. E ce ne mise per tornare al sud!  Più di tre secoli e tutto questo avvenne  quando  Napoli divenne una città cosmopolita, tutta tesa a gareggiare con le più importanti città europee. E’ vero che dopo l’Unità d’Italia c’è stata una lunga e perversa campagna denigratoria contro i Borboni, e il regno delle 2 Sicilie. Ma si sa, la storia la fanno i vincitori e  faceva molto comodo, ai nuovi padroni,  presentarsi come i “Salvatori della Patria.”

Invece Napoli, nella seconda metà del ‘700 era tutta un fervore di Illuminismo  che la Monarchia  assorbiva e  poi trasformava in riforme. Uno sforzo enorme per rendere laica l’istruzione – e non era  stato facile visto che lo Stato confinava con  il Papato di Roma – una nuova rete stradale, l’Università con le nuove facoltà scientifiche, la porcellana di Capodimonte, che nulla aveva da invidiare alle  prestigiose fabbriche francesi o inglesi,  e poi … soprattutto, e questa fu la cosa più importante, Napoli  aveva una Regina. Maria Carolina veniva dal Nord, emancipata, illuminista, massone e molto ambiziosa. Ci mise poco a entrare nel cuore del potere, scardinando  il Primo Ministro e il Re che, del resto,  preferiva spesso andarsene a caccia, sapendo di  lasciare il regno in buone mani. Fra le altre cose Maria Carolina  volle che, l’opificio di San Leucio, da dove cominciava a uscire la seta più bella del mondo, diventasse una Repubblica Socialista, con parte dei beni in comune e una rigorosa parità dei sessi in cui le donne ereditavano, si sceglievano da sole il marito e avevano una stipendio uguale a quello degli uomini. Cosa non da poco se si considera che a tutt’oggi questo concetto fa ancora fatica a farsi strada. In politica estera la regina mise un p0’ da parte suocero e  cognato re di Spagna e si avvicinò sempre di più all’Austria a all’Inghilterra,  ma quando si parlava di cultura o di bellezza il cuore di Maria Carolina  batteva tutto  per la Francia, tanto da trasformare la bigotta corte, che aveva trovato al suo arrivo a Napoli,  in una sfarzosa festa senza fine dove però  si dava grande spazio  anche  ai migliori intelletti  di quel tempo illuminato. E visto che la corte era anche la sede dei fastosi banchetti dove si costruivano le alleanze o si preparavano le guerre, i veri  dominatori della Corte Reale e delle Corti principesche, che  riempivano di fasto la vita napoletana,  erano diventati i cuochi francesi, perché era dalla Francia che  veniva la più eccelsa preparazione dei cibi, divenuta arte raffinata e incontrastata.

san-leucio-borgoE dal cibo a tutto il resto il passo è breve  e così  presto ci  si vestirà  alla francese e si parlerà in francese! Lingua d’obbligo ormai di tutti i salotti bene, anche se, a volte, si tingeva un po’ di napoletano, tanto che i cuochi, sia quelli  strettamente francesi, sia quelli  napoletani trasformisti, venivano chiamati “Monsù.” La più dura battaglia di questi Monsù con i loro padroni, fu la battaglia del riso, già divina pietanza d’oltralpe, ma al quale regnanti e principi  seguitavano a  mostrarsi  tutti…sovranamente indifferenti, se non addirittura ostili. I Monsù dovettero mobilitare tutte la loro inventiva artistica per farlo accettare e la prima cosa che fecero fu tingerlo  di rosso, visto  che il pomodoro era già divenuto una specie di viatico per il Paradiso. Ma non fu sufficiente! I testardi partenopei seguitavano a chiamarlo nel loro colorito dialetto senza scrupoli “Sciacquapanza” e fu allora necessario scatenare  veramente la fantasia per arricchirlo con ogni ben di Dio. Ne fecero una gran ciambella e, allo scopo di insaporire e guarnire,  la riempirono e la coprirono a cupola,  con le  melanzane fritte, i pisellini e  le polpettine al sugo. Le signore cinguettarono di gioia, di fronte a quella presentazione deliziosa, con tutte  quelle prelibatezze  “sour tout”, che, tuttavia,  non riuscendo a ben pronunciare, ben presto trasformarono in “Sartù.” Il riso stavolta ce l’aveva fatta e fu solo l’inizio … perché poi sarebbero arrivati gli arancini e i supplì a far festa. Prima nelle tavole dei ricchi e poi in quelle di tutti, in una  insolita ma felice metafora di  eguaglianza  gastronomica.

E allora, coraggio, divertiamoci anche noi  a fare i Monsù per un giorno, e per Natale, prepariamoci il Sartù!

Cominciamo con il ragù,  facendo soffriggere mezza cipolla a cui vanno aggiunte  due salsicce che si fanno rosolare. Dopo si versa nel tegame 1 litro e mezzo  di passata di pomodoro e  il sale. Si copre il tegame e si fa cuocere per un’ora a fuoco basso.

Poi si rassodano due uova, si tagliano a spicchi e si mettono da parte.

Si tagliano due melanzane a fette piuttosto spesse e si fanno friggere in olio extra vergine di oliva, poi si scolano su carta assorbente e si mettono da parte.

Dopo aver messo a bagno,  in acqua calda, 10 grammi di funghi porcini per 20 minuti, per farli “rinvenire,” si preparano le polpettine con 200 grammi di carne tritata, 30 grammi di parmigiano grattuggiato, un uovo e due fette di pancarrè sbriciolate, ammorbidite  in un bicchiere di latte e strizzate, a cui era stata tolta la crosta in precedenza. Si formano delle polpettine non più grandi di una noce, si friggono in abbondante olio extra vergine e si mettono poi a scolare su carta assorbente.

In una padella si soffrigge mezza cipolla in cui si dorano 50 grammi di pancetta e si aggiungono 250 grammi di piselli e i funghi rinvenuti. Si fa cuocere tutto per 10 minuti e si mette da parte.

P1090401pPassiamo alla cottura del riso facendo soffriggere, in una pentola, mezza cipolla tagliata a fette in olio extra vergine di oliva, poi  si aggiungono 400 grammi di riso, si fanno tostare, si condisce con metà del ragù di carne e si copre di brodo. Lo facciamo cuocere per 10 minuti circa seguitando a ricoprirlo  di brodo per non farlo bruciare. Dopo averlo tolto dal fuoco,abbastanza asciutto, aggiungiamo 50 grammi di parmigiano, facendolo mantecare.

Mentre si cuoce il riso, dal ragù si estraggono le due salsicce, si sminuzzano e si mettono da parte.

Prendiamo adesso uno stampo per ciambelle, imburriamolo e cospargiamolo di pane grattato, poi foderiamolo di riso sul fondo e sulle pareti e aggiungiamo  metà dei piselli, delle polpette, delle salsicce, poi 150 grammi di  mozzarella tagliata a dadini, 1 uovo sodo tagliato a strisce,1  melanzana tagliata a pezzetti e  spolverizziamo con circa 50 grammi di parmigiano.  Ricopriamo con il resto del riso  che deve arrivare al bordo dello stampo, spolverizziamo  con 100 grammi di  parmigiano e il  pangrattato e inforniamo per 25 minuti circa.

Estraiamo  lo stampo dal forno e prima di rovesciarlo sul piatto di portata, passiamo la lama di un coltello all’interno dello stampo per staccare  la forma di riso dallo stampo stesso. Quando è rovesciato sul piatto  si stacca dal fondo con piccoli colpi ben assestati e si solleva lo stampo.

Prima di portare in tavola si cosparge in cima,” sour tout”  il resto degli ingredianti, piselli, polpettine, salsicce, 100 grammi di mozzarella, l’ultima parte di ragù, 1 melanzana e 1 uovo a  spicchi che, in parte scenderanno  nel foro della ciambella e in parte resteranno posizionati in cima.

Il Sartù si porta in tavola intero a far bella mostra di sè  e si taglia a spicchi in presenza degli ospiti. 8, secondo le dosi adoperate.

Palazzo_Reale_di_Napoli_(schiacciata)