Nonostante la tradizione che vuole gli Ebrei a Venezia, quasi all’inizio della sua fondazione, quelli che nel X secolo si incontravano sulla riva orientale di Rialto a commerciare e prestate sodi ai primi armatori veneziani, li dobbiamo considerare, in realtà, come “pendolari d’avanguardia”. Aver casa e dormire a Venezia non era tanto facile perché la gente, forse istigata dai preti, poco li tollerava. Completamente sfatata l’ipotesi che la Giudecca fosse il loro quartiere perché l’etimo risale alla radice “giustizia” e non Giudea. Di sicuro Venezia aveva anche un forte spirito cristiano che, come un po’ in tutta Europa, tendeva a emarginare gli ebrei, ma aveva anche un grande senso pratico e sapeva che difficilmente avrebbe potuto fare a meno, per i suoi commerci e per le nascenti basi d’oltremare, dei finanziamenti degli Ashkenaziti, gli ebrei che scendevano dalla Germania. Così un po per volta finì per accettarli.
Alla fine del 1300, gli Ashkenaziti erano in buona posizione e in pianta stabile, con uno spazio abitativo su un isolotto in città e un Cimitero tutto loro al Lido. Peccato che un Prestatore di soldi, un banchiere come più eufemisticamente si dice oggi, combinasse qualche pasticcio finanziario, che portò alla revoca del permesso di soggiorno illimitato. Ovviamente in città ci potevano venire, – c’era troppo bisogno di loro – ma per periodi limitati e portando, per farsi riconoscere e starne alla larga, un cerchio giallo sul mantello e un berretto giallo che poi divenne rosso. Per tutto il 1400 Venezia riuscì a tenerli fuori città, ma poi fu sopraffatta, quando si ruppero gli equilibri fra i principi italiani e gli stranieri cominciarono a invadere la Penisola. Il Papa Giulio II° alleato della Francia ben presto conquistò l’entroterra veneziano, mettendo in fuga le popolazioni e soprattutto gli Ebrei che trovarono rifugio a Venezia.
Questa volta fu gioco forza accettarli in città.
Per loro fu creato, primo esperimento nel suo genere, il Ghetto Nuovo, nel quartiere di Cannareggio, dove all’origine c’era una fonderia,”geto”, in dialetto veneziano, che stava a significate la gettata del metallo. Lì abitavano, in condizioni di apartheid, con due soli ingressi che di notte venivano chiusi e sorvegliati da guardie cristiane, pagate per colmo di ironia, dagli ebrei stessi. Comunque era dato loro il permesso di gestire i banchi di pegno e vendere la “strazzeria”, quella che oggi si è nobilitata nel “Vintage”. Infine potevano fare i medici e in questo caso avere più libertà di uscire dal Ghetto anche di notte.
Poi la comunità ebraica si arricchì di nuovi gruppi. Prima arrivarono gli ebrei vittime della riunificazione della Spagna e della scarsa tolleranza dei nuovi Cristianissimi Regnanti. Poi i commercianti dell’Africa e poi i Romani, cui la carità del Papa e della Curia, stava rendendo impossibile la vita. Quando il Ghetto Nuovo risultò insugfficiente furono assegnati agli ebrei altri spazi che presero il nome di Ghetto Vecchio e Ghetto Novissimo. Ma nonosrante la contiguità ogni gruppò riusci a mantenere le sue tradizioni, le sue cerimonie, distinte sinagoghe e…la sua cucina. Del resto erano più di mille e cinquecento anni che li avevano frantumati e a parte la conservazione religiosa, i vari gruppi della diaspora avevano finito per assimilare cultura, usanze e cibo dei paesi ospitanti. Pensate che spettacolo doveva essere girare per il ghetto e trovarsi vicino vicino un ebreo ashkenazita col suo severo vestito nero e un Sefardita dalle ricche vesti di broccato e il rutilante turbante. L’inizio del XVII secolo fu un’età dell’oro, non solo per Venezia, ma anche per gli Ebrei. Erano tutti contenti perchè la Serenissima incassava tasse altissime e gli ebrei erano sempre più ricchi.
Poi la peste e il lento declino di Venezia ormai ristretta nel suo mare chiuso, mentre i grandi traffici solcavano l’Atlantico. Gi ebrei cominciarono a sparpagliarsi. Molti andarono a Livorno, molti ad Amsterdam e ad Amburgo… e alla fine arrivò Napoleone che sotto l’egida della fraternitè e dell’egalitè aprì o … come dire, chiuse il Ghetto.
Ciononostante una piccola, elitaria comunità è rimasta a Venezia, così vicina al centro e già così diversa. Si traversa un ponte, si incontra una piazza e l’ atmosfera cambia, C’è più tranquillià e si passeggia con piacere. Piccoli caffè e ristoranti che sono poco più di osterie, ma simpatici, piacevoli e pieni di specialità ebraiche, ormai forse un po’ confuse fra loro… chissà quali saranno sefardite o aschkenazite, ma in ogni caso ci sentiamo felicemente distanti anni luce dai locali del turismo mordi e fuggi che è solo a poche centinaia di metri più in là.
Poichè oramai si avvicina Carnevale abbiamo voluto scegliere, all’interno del Ghetto, questi deliziosi dolcetti, che si mangiano in questo periodo e che somigliano alle frappe, anche se ripieni e ritaglati, che hanno però un nome insolito e un po’ minaccioso: “Le orecchie di Amman.” Si tratta di un dolce antichissimo ché é legato alla storia della Regina Ester, un ‘ebrea divenuta nel V secolo avanti Cristo, la favorita del re Achemenide Serse , riportato nella Bibbia come Assuero.
La storia narra come il potente primo Ministro del re, Amman, avesse deciso, all’insaputa del re stesso, di mandare a morte l’intera comunità ebraica, che viveva nel regno in condizioni di semi schiavitù. Fu Ester, di cui il re ignorava l’origine ebraica, a sfidare le rigide regole di Corte e a presentasi al Re, senza essere stata convocata, dopo tre giorni di digiuno. Con la sua grazia e la sua dolcezza riuscì a sventare le mire del perfido Amman e a salvare il suo popolo. Amman fu crocifisso e questa storia biblica, così famosa, si può ancora andare a vedere in un pennacchio della Cappella Sistina, effigiata da Michelangelo.
Ma facendo un piccolo passo indietro, visto che Ester e tutto il popolo ebraico, avevano digiunato per tre giorni, subito dopo lo scampato pericolo, cercarono di rifocillarsi e prepararono questi dolcetti che vollero chiamare, sia pure con un pò di comprensibile crudeltà “Le orecchie di Amman”. Nel Ghetto ebraico è facile trovarli durante la festa di Purin, che ricorda la storia di Ester e la salvezza del Popolo Ebraico e che cade fra il mese di febbraio – marzo, proprio come si diceva, in coincidenza con i nostro Carnevale. Questo è il motivo per cui ci è sembrato giusto, fornire adesso, la ricetta.
ORECCHIE DI AMmAN
INGREDIENTI.
Per l’impasto: Farina bianca (250 g), zucchero (2-3 cucchiai), burro(150 g), latte (3 cucchiaini), essenza di vaniglia (3-4gocce), tuorlo d’uovo (1), albume d’uovo (1).
Per il ripieno: Semi di papavero(150g), miele (2 cucchiai), zucchero (4 cucchiai), uvetta (4 cucchiai), limone grattugiato (1), succo di limone (2 cucchiai), latte (170 ml), burro (1 cucchiaio abbondante).
PREPARAZIONE:
In una zuppiera mescolare la farina, lo zucchero e l’essenza di vaniglia. Aggiungere il burro tagliato a piccoli pezzi, lavorare il tutto aggiungendo il latte. Continuare a lavorare l’impasto fino a dare alla pasta una forma rotonda.
A parte preparare il ripieno: unire i semi di papavero al latte facendoli bollire per 15 minuti. Aggiungere il miele, lo zucchero, l’uvetta, il burro e cuocere per altri 5 minuti. Infine il succo e la scorza di limone. Distendere la pasta in modo che sia sottile, disporre in una pirofila infarinata arrotolarla su sé stessa, spennellare con l’albume ben sbattuto e cuocere in forno per 20-25 minuti a 190°- 200°.
Tagliare, una volta raffreddato il tutto, a forma di triangoli.