La Grande Bouffe, lo Chef Tognazzi e i Rognoni alla Bourguignonne

Con un’espressione colorita ed efficace Cremona  la chiamano la città delle 3T, che qualcuno oggi in onore del suo grande concittadino chiama anche Torrone, Torrazzo e Tognazzi, ma  che, nella versione originaria  sarebbero invece il Torrone, il Torrazzo e le Tette…  Cioè in sintesi cibo, arte e sesso, cose solide che definiscono la vocazione di un intero territorio “La Bassa Padana”  in cui Cremona è  immersa… E dove la divisione regionale  ha un sapore  molto  amministrativo e poco reale. Ma se il Torrazzo  è da sempre l’incontrastato  campanile  più alto d’Italia con i suoi 110 metri e oltre e il cibo, fra tortellini, salumi e  quel vanto del torrone, domina la scena da parecchi secoli…Erano invece  in forte  ribasso  le fortune del sesso  ai  tempi  del giovane Tognazzi. Negli ipocriti anni 50,  anche  da quelle parti …  il sesso secondo la morale  imperante, poteva trovare lecito accoglimento solo  nei casti talami coniugali…  Di conseguenza il bigottismo  di regime e  il  perbenismo  del viver sociale rendevano spesso limitata e insicura la partecipazione femminile all’amor profano… Chiaro che i giovani leoni di provincia, esuberanti  e  vogliosi andassero a cercare  l’amore nei paesi del Nord Europa di vedute meno  ristrette o  aspettassero al varco le bionde vikinghe allorchè  mettevano piede sul  suolo italico.  Fu quello che fece anche Ugo Tognazzi… che adorava Cremona, la sua città, ma che per molti versi gli andava stretta… Certo quel profumo di cibo  che  si propagava  anche nelle strade lo incantava, anche se all’epoca la sua passione gastronomica era ancora confusa… E in quella città aveva fatto le sue prime esperienze in teatro nel dopolavoro della fabbrica di salumi  dove  aveva fatto l’operaio… Ma ormai era tempo di  allargare  i suoi orizzonti…

A Milano lo notano subito e dall’avanspettacolo con  la divina Wanda Osiris, ben presto entra  nella neonata televisione…  Non aveva scuole alle spalle, ma un intuito recitativo e una capacità comica che ne hanno fatto uno dei più grandi attori italiani per oltre 30 anni. Uno spassoso  programma  satirico con l’amico di tutta la vita Raimondo Vianello lo impegnò in televisione parecchi  anni mentre il cinema cominciava  a  rincorrerlo. Ma è quì, a Milano che Ugo comincia a soddisfare la sua” voglia matta”, quel sesso disinvolto… da maschio italiano senza troppe complicazioni, che quelle  straniere  bellezze  erano felici di condividere con lui… Allegro e spensierato gaudente, sembrava proprio che tutte le donne lo adorassero…  Dalla ballerina irlandese Pat O’Ara ebbe il primo figlio, Ricky, dalla svedese Margaret Robsham, il secondo figlio Thomas, poi a seguire negli anni  ci saranno Caprice Chantal una ballerina  della Martinica ed Helene Chanel un’attrice francese…fino al approdare, ma dopo tanti anni e tante altre avventure   al suo porto tranquillo con l’italianissima Franca Bettoja…   Anche Tognazzi l’inguaribile ragazzaccio cominciava a crescere! Tante donne, quattro  figli tutti adorati, tanto lavoro, tanto mangiare, bere, fumare… Tutto in Ugo era esagerazione… Che la vita di provincia aveva provato a comprimere senza riuscirci.

Al cinema erano gli anni della commedia all’italiana, un genere  nuovo  di fare cinema dove  non bastavano più le situazioni comiche e gli intrecci della commedia tradizionale.  Ci voleva invece sempre di più l’ ironica, pungente e  spesso  amara satira di costume,… Il cinema diventava sempre più bravo a rappresentare e a riflettere, con l’arrivo della società del benessere, l’evoluzione degli italiani, l’emancipazione nella famiglia, l’allentarsi dei vincoli matrimoniali.  In molti dei film più riusciti sarà inevitabile ritrovare  Ugo Tognazzi, che assieme a Gassman, Sordi e Manfredi sarà uno degli interpreti più acclamati, ironici e grotteschi..   si giocò magistralmente la carta delle sue radici  della  Bassa Padana   interpretando gli  indimenticabili, drammatici personaggi emiliani, de “La Califfa”, di “Questa specie d’amore”, dove il cibo ha un ruolo chiave  nella memoria familiare, e “La tragedia di un uomo ridicolo”, apparve in graffianti satire storiche come “Il Federale e la “Marcia su Roma”, affrontò i personaggi choc de “I Mostri”, fu l’omosessuale   de “Il Vizietto e il magistrale interprete delle feroci denunce di Marco Ferreri. Quando volle fare “La Grande Abbuffata” fu quasi un obbligo per Ferreri chiamare Ugo perché in quel tragico film, dove i quattro amici si suicidano con gli eccessi della tavola, serviva un attore capace di vivere con grande disinvoltura un’atmosfera di assurdo  e di esagerato… E questo Tognazzi aveva dimostrato di saperlo fare sia nella vita che nei film, ma serviva un cuoco, anzi uno Chef di livello,  qualcuno  veramente bravo che  preparasse le più  strane e leggiadre  e saporite pietanze per invogliare gli amici a suicidarsi ogni giorno di più, senza ripensamenti…e  Ugo Tognazzi era quella persona, lui che aveva affinato in anni di passione tutta padana, le sue armi culinarie e si era specializzato in elaborati banchetti della vita privata dove, nella sua villa di Velletri  conveniva, come negli antichi simposi, l’èlite del cinema italiano per  sprigionare l’inesauribile fantasia che allora colpiva tutti, registi, attori, sceneggiatori.

safe_image.phpNe “La Grande Abbuffata”, oltre alla raccolta disperazione del personaggio Ugo, che è lì per suicidarsi come tutti i suoi amici, Tognazzi da una grandissima interpretazione di come si muove uno Chef, dei suoi gesti sicuri, dei suoi tagli rapidi, delle sue fantastiche elucubrazioni culinarie. Tognazzi, l’uomo degli eccessi recita la parte del cuoco con un senso della misura e dello stile che rimarrà negli annali… Mentre quasi a contrasto prepara quelle smisurate, eccentriche composizioni…  Da questo fantastico film stasera presentiamo uno dei piatti  preparati  nella clausura  pre -suicida. Nonostante il clima del film, il piatto  ha in sé qualcosa di delicato e gentile  perchè nasce come  atto di  cortesia  e di amore verso Marcello, l’italiano del gruppo, a cui piacevano tanto…

ROGNONI ALLA BOURGUIGNONNE

INGREDIENTI: 2 rognoni di vitello per complessivi 500 grammi, 80 grammi di burro, 1,5 dl di vino bianco secco, 1 dl di Borgogna, 3 scalogni, 2 cucchiaino di prezzemolo tritato, sale e pepe q. b.

PREPARAZIONE: Pulite accuratamente i rognoni, liberandoli del grasso e delle pellicine poi tagliateli a fette e immergeteli in un recipiente con acqua e aceto e lasciateli immersi per 30 minuti.  Dopo sgocciolateli e lavateli sotto acqua corrente. In 50 grammi di burro rosolate a fuoco basso gli scalogni tagliati a fettine, facendo attenzione  a non bruciarli, poi  aggiungete i rognoni e fateli insaporire, rigirandoli spesso, per 5 minuti. Togliete i rognoni dal tegame e al fondo di cottura aggiungete il vino bianco, fatelo evaporare a fuoco vivace per circa la metà, quindi unite il resto del burro e il vino rosso. Sempre a fuoco vivace fate cuocere altri 10 minuti per restringere la salsa. Rimettete quindi i rognoni nel tegame, mescolate e continuate la cottura per un quarto d’ora a fiamma bassa aggiustando 5 minuti prima di togliere dal fuoco di sale e pepe. Aggiungete il prezzemolo e servite i rognoni caldissimi.

Il torrone di Alicante e dintorni

torrazzoNatale con  i magnifici tre: Panettone, Pandoro e Torrone. E tutti e tre sempre  in gara per sentirsi i più blasonati!  Per tradizione, il Pandoro fissa  le sue origini  attorno al  ‘500, nello splendido  scenario della Repubblica Veneta,  dove lo portavano in tavola a forma conica, completamente ricoperto di foglie d’oro, tanto che  per questo, oltre che per la sua pasta dorata, l’avevano chiamato “Pan de Oro.”  C’è chi dice invece che sia  la versione  più elevata e amplificata  di un  dolce più casereccio, il “Nadalin, ” anch’esso a base stellare. Ma qualcuno preferisce rivendicargli 0rigini più antiche, per  timore di essere surclassato dagli  altri due magnifici e così, scartabellando testi trova, ai tempi di Plinio il Vecchio, un “Pane con la consistenza dorata, con fior di farina burro e olio.”

Il Panettone, invece, lui, le leggende  delle  origini ce l’ha nel sangue e una si sovrappone all’altra. C’é chi dice che fosse il Pan de Ton, il “Pane di tono”, cioè quello dei signori, che nel 1500, una volta l’anno, i fornai distribuivano gratis anche ai poveri. Fra tante altre poi, c’è  una storia  quasi commovente, che riguarda il cuoco di Ludovico il Moro, a cui,  proprio il giorno di Natale, si carbonizzò il dolce, mentre  gli invitati, già impazienti, lo stavano aspettando in tavola. Mentre l’infelice cuoco era lì, al colmo della disperazione, arrivò inaspettata la salvezza da Toni, il piccolo sguattero della cucina. “Stamattina- gli disse – ho trovato gli ultimi avanzi in dispensa …  farina, burro, uova, cedro candito e uva sultanina e mischiando tutto ho preparato questo dolce. (Forse povero Toni se lo voleva portare a casa e fare un po’ di festa in famiglia pure lui…)  Se non avete altro potete portarlo a  tavola… ” Dopo, tutti e due, Capo cuoco e sguattero, nascosti dietro la tenda, si misero a osservare le reazioni, sulla faccia degli invitati. Scoppiò l’entusiasmo e il Duca in persona mandò a chiamare il cuoco per sapere il nome del dolce e  lui ancora tremante  per lo scampato pericolo, candidamente confessò “L’è ‘l pan del Toni”.  E quel nome, aggiustato in Panettone, gli rimase addosso.

image049Ma è la storia del “Magnifico III”, il Torrone, quella più controversa e accidentata. Perchè se il Pandoro è di Verona e il Panettone di Milano, il  Torrone  è sicuramente cosmopolita e  appartiene  a un mucchio di  città in Francia, in Spagna e in Italia. A Cremona sarebbe piaciuto tanto poterne vantare l’esclusiva e ci  hanno   provato in tutti i modi, libri di Storia alla mano. Quì, dicono ancora oggi, – nelle pasticcerie artigiane e  sui marchi di fabbrica  delle grandi industrie, che lo esportano in tutto il mondo,-  si sono sposati il 25 ottobre del 1441 Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti. Qui, per il loro banchetto nuziale,  fu inventato un impasto di mandorle, miele e bianco d’uovo, portato in tavola tutto eretto, come copia esatta del “Torrazzo,” la torre campanaria del Duomo cittadino, che poi, ovviamente, concludono sempre i cremonesi, ha finito col dargli il nome.Ma i furbi cremonesi tacciono un fatto molto importante che stravolge  completamente la loro teoria. Proprio qui infatti, verso il 1100, un sign0re molto erudito Gherardo Cremonese, tradusse  in latino, un  un testo scritto a Cordova dal medico ispano arabo Abdul Mutarrif, “De  medicinis et cibis semplicibus”. Vi si parlava delle virtù salutari di molti cibi e, una volta arrivato al miele, Abdul  lo associava a un particolare dolce che facevano gli arabi, il “Turun”, appunto. Erano  quindi quasi tre secoli, che circolava per Cremona  la ricetta del torrone servito poi, questo si, in modo tanto originale e patriottico alle nozze Visconti – Sforza. E, del resto,a meglio sconfessare i cremonesi, i Veneziani, che da tanto  tempo avevano a che fare con l’Oriente, già dal Medio Evo, per Natale, mangiavano un dolce fatto con un impasto di miele, mandorle e zucchero aromatizzato con tante spezie.

Ma la storia non finisce qui…anzi siamo ancora agli inizi. Una volta, tanto tempo prima, pressappoco nel 4° secolo a.c. c’era un popolo italico, valoroso e guerriero, sicuramente anche  un pò rustico,  che dalle severe vette appenniniche, scese a valle scacciando  da Napoli e  provincia, pensate un po’, i civilissimi e raffinati  greci. Al loro confronto i Sanniti  avevano ben poche cose, oltre i grandi scudi  e le spade, ma fra queste  pare che ci fosse anche il torrone. Almeno così dice il grande storico Tito Livio e Marziale, altro autore romano aggiunge che si chiamava “Cupeta”o “Cupedia” termine che non a caso doveva avere a che fare con la cupidigia, cioè, come dire, la gran voglia di mangiarselo. Comunque il nome ha retto  in parecchie zone dell’Italia Meridionale e soprattutto a  Benevento, luogo Sannita per eccellenza e un’altra delle patrie nobili del Torrone, dove lo chiamano Cupeta o anche  Strega, perchè si va a legare con un’altra antichissima tradizione che fa di Benevento uno dei luoghi di raduno delle antiche fattucchiere.

Ci sono ancora altri, udite, udite, che con tutta sicurezza affermano invece che il torrone ce l’hanno portato i Cinesi, e qui viene proprio da esclamare  sconsolatamente “Ma come, anche questo?” e a  supporto della loro teoria, questi cultori del Celeste Impero fanno notare come,  i primi alberi di mandorlo crescevano solo in Cina. Non resta che arrenderci! E’ noto che abbiamo importato  anche  quelli.

Adesso,  pur rimpiangendo di lasciarci alle spalle numerosi torroni italiani saporitissimi come quelli sardi color avorio o  i semi morbidi e  coloratissimi  siciliani, andiamocene senza voltarci indietro in un’altra famosissima patria del torrone, Alicante, in quella terra di Spagna che sicuramente, in fatto di torroni, ha più di tutti assorbito la grande tradizione araba. Perché poi, secondo voci ben accreditate, sarebbero stati proprio gli arabi a inventare il torrone. E questo ben chiaramente ce lo aveva fatto capire  il medico di Cordova dell’11 secolo, quando parlava del Turun.

torroneMagica Alicante! Storia, cultura, spiagge fra le più belle d’Europa, oggi Alicante vive in un’atmosfera elettrizzante, con una movida notturna fra le più belle di tutta la Spagna. Ma non ha assolutamente abbandonato le sue tradizioni fatte di ospitalità e di grande cucina, soprattutto marinara, ma dove il torrone occupa un posto di grande prestigio, perchè è rimasto rigorosamente un “Torrone a Km 0”! I mandorli crescono in zona, li puoi trovare nei giardini delle case e il miele  anche è rigorosamente fatto sul posto. C’è un apposita Commissione che controlla attentamente il prodotto e  solo a quelli che hanno tutti i requisiti a posto è concessa l’ambita IGP (Indicazione geografica Protetta). Le mandorle devono essere il 46% dell’intero prodotto. Si sbucciano e si mettono ad arrostire su tamburi rotanti e quando hanno raggiunto la tostatura si uniscono all’albume diluito e al miele che è esclusivamente quello locale della Comunità Valenciana. Ed ecco qui una ricetta completa e in fondo abbastanza semplice per chi  il torrone se lo volesse preparare da solo.

Se siete in 8 persone mettete 250 grammi di miele e fatelo sciogliere a fuoco basso in un pentolino, poi aggiungetevi 150  grammi di zucchero e mescolate a lungo con un cucchiaio di legno. Poi a parte montate a neve un albume d’uovo e incorporateci lentamente il composto di miele e zucchero, mescolando  per una decina di minuti. Aggiungete anche un mezzo bicchierino di anice, rimettete il composto sul fuoco a fiamma media e fatelo caramellare. E’ questo il momento di aggiungere 500 grammi di mandorle tostate. Seguitate a mescolare  ancora per qualche minuto e poi versatelo in uno stampo coperto di carta di riso e rovesciatelo solo dopo qualche ora.

Un dubbio dell’ultimo momento a proposito del nome. Perché la storia si fa ancora una volta controversa. Escluso che venga dal “Torrazzo” cremonese, i più ritengono che l’origine si possa far risalire al latino  “torrere,” che significa tostare. Ma come  mai anche gli arabi lo chiamavano Turun? Per quali strade  si era andato a incastrare nella lingua di Maometto un termine  così latino? Forse sarà meglio non andare ad approfondire troppo perchè, col torrone, fra una storia e l’altra si finisce per perdere la testa. Tutto sommato, la cosa più bella …e più dolce, visto che sta arrivando il Natale, è cominciare ad assaggiarlo, appoggiandolo magari a uno Spumante Catalano o a un buon Passito di Pantelleria.

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