Era stato malinconico in vita e forse fu per questo che quando morì i funerali diventarono tre. E dire che lui, col suo solito pessimismo, aveva detto pochi giorni prima “Chiudo in fallimento. Nessuno mi ricorderà”. A Roma, in effetti non era cominciata bene perchè il prete, venuto a benedirlo, subito dopo la morte, pretese che Franca Faldini, per lui solo una concubina, uscisse sul pianerottolo…Subito dopo però cominciò l’ondata di folla che si riversò in casa per 48 ore… Amici e conoscenti dello spettacolo, ma anche l’italia degli sconosciuti che arrivavano ininterrottamente, coi pullman organizzati all’ultimo momento. Due giorni dopo, a Sant’Eugenio, nella Chiesa chic del quartiere Parioli, si presentò con le sue migliori insegne… La bombetta e il garofano rosso sulla bara… Quelli degli anni dell’avanspettacolo… Ma non valse a nulla. Fu una cerimonia frettolosa, più che altro una benedizione, perché c’era la presenza imbarazzante di Franca Faldini … Al massimo, pensavano le autorità religiose, una moglie in senso biblico…
Fu il gran cuore di Napoli che non fece storie. Quasi 3000 persone all’interno della Basilica del Carmine… Più di 250.000 in strada, a piangere quella perdita senza ritorno, mentre la bara scortata dai motociclisti della polizia a sirene spiegate, raggiungeva il cimitero…Fu mentre stava per ritornare a Roma che la figlia Liliana fu fermata da una specie di apparizione…Un uomo tutto vestito a lutto, col cappello nero e qualcosa sotto il braccio. E mentre si presentava “Io sono Campoluongo, ” lei capì che era il famoso “guappo”, Nas’e cane,” quello che “proteggeva” il quartiere Sanità… Totò, tanti anni prima gli aveva regalato una sua foto con dedica, quella che aveva sotto il braccio…”Questa cosa non può andare – disse – Deve avere il funerale a casa sua.” E tre mesi dopo a Liliana arrivò l’invito scritto, la macchina con l’autista e l’albergo già prenotato a Napoli… Nella Chiesa della Sanità, proprio lì dove Totò era nato e aveva vissuto la sua irrequieta e povera giovinezza, ci fu il terzo funerale, con la bara, sia pur vuota, al centro della navata…
Sarà stato anche figlio di un marchese, sia pure squattrinato, ma soprattutto era figlio di una ragazza sedicenne e senza marito o, come si diceva allora figlio di N.N…. Povero, affidato alla nonna, perché sua madre si profumava, s’incipriava e usciva col marchese, spesso lo vestivano con i pantaloni ricavati dalle gonne smesse delle donne di famiglia, che qualche volta erano anche a fiori… Non ci vuole molto a emarginarlo e chiamarlo “Recchione”. Lui si ribella, si toglie i calzoncini a fiori e in mutande, improvvisa una serie di smorfie. I ragazzini ammutoliscono poi si divertono e poi l’accettano.. A lui piace anche fare il prete… Prepara così degli altarini con immagini di santi e lumini e si mette a officiare inventando filastrocche strampalate… Ma non è ancora la maschera di Totò…Questa arriverà più tardi quandpo la mamma per toglierlo dalla strada lo manderà a scuola dai preti… Qui non volendo, gli daranno un pugno… lì per lì sembra niente, ma poi il naso si torce e una parte del viso scande più dell’altra…
A 14 anni con la scuola chiude. Con quei pochi soldi che guadagna facendo l’imbianchino se ne va a teatro e nelle feste di famiglia fa l’imitazione del fantasista preferito… Si è accorto che la sua faccia deformata dal pugno può assumere qualunque espressione estrema e anche il suo corpo, le braccia, le gambe, il collo sembra che se ne vadano per conto suo. Quando comincia a presentarsi in pubblico lo fa, e non poteva essere diversamente, in posti infimi, pieni di fischi e di urli…E lui già così fragile comincia la serie delle crisi depressive, che periodicamente torneranno… Ma è noto! I più tristi sono sempre i comici. Poi la prima affermazione quando, cambiato il repertorio, imbocca la strada della parodia… Il primo successo arriverà a Roma all’Ambra Jovinelli, la consacrazione nei principali caffè-concerto italiani, dal Trianon al San Martino di Milano al Maffei di Torino… Il repertorio è quello ormai collaudato in cui si afferma il tipo della marionetta disarticolata, ormai nota come «l’uomo gomma»
Nel dopoguerra arriverà il successo travolgente del cinema … Lui offre tutta la sua mimica, lo sguardo obliquo , gli inesauribili movimenti del corpo e del collo che si allunga e si accorcia a suo piacimento… Una recitazione forte dell’esperienza teatrale con il ritmo dei tempi scenici e le entrate e le uscite a effetto… E poi l’invenzione di un nuovo linguaggio, le espressioni che sbeffeggiano il potere e la burocrazia, nel loro linguaggio paludato… E in più tante parodie a fare il verso a film famosi, il gusto di contraddire, la voglia di contaminare, tra un «eziandio» e un «tampoco», tra un «a prescindere» e un “è d’uopo.” I critici d’allora storcevano il naso su quei film frettolosi, a basso costo, di cassetta… Quasi 100 in venti anni…”Toto’ Le Mokò,” “Totò cerca moglie” ,”47 morto che parla” e perché no, anche “Totò terzo uomo” “È veramente doloroso, scrivevano, constatare come la comicità di certi film italiani sia ancora legata a sorpassati schemi appartenuti al più infimo teatro di avanspettacolo e Totò sfoggia come al solito i tipici atteggiamenti di quella comicità così banale.” E salutarono infine, come la liberazione del genio, la sua chiamata, già sul finale di vita, a partecipare a film come “La Mandragola” e “Uccellacci e Uccellini” di Pasolini. Ma al pubblico, per anni la qualità dei film sembrò non interessare… Correva a vedere lui, e dopo più di 40 anni dalla morte di Totò occorre avere un po’ di umiltà e riflettere… Perché il cinema di questo straordinario attore dell’eccesso spesso è ancora vivo, fresco, immediato, nonostante i limiti della farsa e le approssimazioni delle sceneggiature…
Nella vita seguitò a essere triste… Cercava strani equilibri nei titoli nobiliari che riscattassero la sua misera infanzia dei bassi napoletani… E non gli bastò il titolo di Marchese che gli lasciò il padre con un tardivo riconoscimento… Si fece adottare anche dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas. Forse era vero… forse no, ma al termine di una lunga battaglia legale decisero che il suo nome era “Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio” e che lui era Principe, Conte Palatino, Nobile, con trattamento di Altezza Imperiale… Qualcuno,come Oriana Fallaci durante un’intervista arrivò a dirgli che aveva un viso “bizantino”… Ma Oriana era una perfida toscanaccia…
Le donne … Anche quelle devono essere state lo strumento del suo riscatto… Le voleva bellissime e poi le abbandonava… La bella Liliana Castagnola si suicidò per lui… E a lui nel ricordo pieno di rimorsi, non restò altro che dare il suo nome all’unica figlia… Si sentiva anche un po’ vittima e da quei suoi stati d’animo amari e malinconici nacquero canzoni come “Malafemmina”o “Sulo”… “Sulo! Songo rimasto sulo, nun tengo cchiù a nisciuno, tenevo sulo a te” … o poesie come” A livella”, con l’amara consolazione della morte che rende tutti uguali…
Solo alla fine trovò un po’ di pace con la giovanissima Franca… Che seppe amarlo per 15 anni e fino alla morte nonostante lui fosse anziano e malandato… Ma lei aveva doti straordinarie di maturità e di equilibrio che in fondo erano sempre mancate a quel genio tormentato, grande e malinconico che era stato Totò o, come era più felice di essere chiamato… Il Principe De Curtis…
D’obbligo pensando a Totò pensare anche a tutta la cucina napoletna, a quella che nonostante tutto sopravvive, che arriva dai profumi dei vicoli ed è fatta di spaghetti fumanti, di pizze colorate, di collane di mtili e di molluschi… C’è un ristorante a Napoli che è soprannominato “Nas’e Cane, proprio come il guappo che ammirava Totò.. E’ dai menù di questo ristorante che ci siamo ispirati per la ricetta. In quella tradizionale si adoperano le vongole “veraci”, ma poiché negli ultimi anni sono quasi tutte di allevamento, hanno perso un po’ di sapore. E’ questo il motivo per cui abbiamo preferito i “lupini”, varietà di vongole più piccole e meno scenografiche, ma di maggior sapore.
LINGUINE AI “LUPINI” E AI GAMBERONI
INGREDIENTI per 4 persone: 330 grammi di linguine, 700 grammi di vongole “lupini”, 500 grammi di gamberoni, 1 mazzetto di prezzemolo, 4 cucchiai di olio extra vergine di oliva, 2 spicchi di aglio, sale grosso e fino
PREPARAZIONE: Mettete uno scolapasta posizionato all’interno di pentola, versate le vongole nello scolapasta, copritele con acqua fredda “a filo” e una manciata di sale grosso. Lasciatele così per 7 – 8 ore ore affinché perdano la sabbia, cambiando l’acqua 3 – 4 volte. Poi sollevatele con lo scolapasta in modo che l’eventuale sabbia rimanga sul fondo della pentola. Lavate il prezzemolo, tritate le foglie e buttate via i gambi che possono causare intolleranza o intossicazione. Scaldate in una larga padella l’olio extravergine, unite gli spicchi di aglio spellati e schiacciati e fate aprire le vongole a fuoco alto con il coperchio. Non appena aperte (ci vorranno 1-2 minuti), togliete la padella
dal fuoco e sgusciatene la metà. Sgusciate i gamberi, levando la testa e lasciando le codine, incideteli sul dorso ed eliminate il filamento scuro, poi scottateli per 3-4 minuti in una pentola con abbondante acqua salata e scolateli. Lessate nella stessa acqua le linguine e scolatele al dente. Saltate la pasta in padella pochi minuti con le vongole sgusciate e il loro liquido filtrato, aggiungete i gamberi e unite una parte del prezzemolo tritato. Impiattate e decorate ciascun piatto con le vongole col guscio, poste alla sommità assieme alla restante parte del prezzemolo tritato.
Appena comincia a parlare, dà una sensazione di tranquilla semplicità mischiata a una leggera ironia… Ma di quelle che non fanno male a nessuno… E ci vuole un po’ di tempo per scoprire quanto invece sia irrequieto. Che se poi andiamo a dare uno sguardo alla vita di questo arguto e vivacissimo signore di 80 anni, ci si accorge che non è stato fermo un attimo e ha sempre ricominciato dai suoi punti di arrivo, quelli dove, la maggior parte delle persone, si fermerebbe, guardandosi attorno soddisfatta. Di certo non è da tutti nascere già con 40 camere d’albergo e un ristorante nel cuore di Milano… Ma il sereno avvenire che vede davanti a sé a Gualtiero Marchesi non basta … La sua è una vocazione, un’ ansia di migliorare, una sfida dove si mette continuamente in discussione … E fin dall’inizio non è solo cucina…. C’erano la pittura, le letture, la musica, l’opera.. Di pianoforte era proprio appassionato e prendeva lezioni, salvo smettere quando si innamorò della pianista e la sposò… Comunque a 18 anni era già da parecchio fuori casa in un’alta scuola di cucina a Lucerna. Quando tornò nel ristorante di famiglia era bravissimo… Poteva raccogliere i suoi frutti e infatti per qualche anno sembrò quietarsi… Ma appena il tempo di dare nuovo lustro al ristorante dove negli anni ’60 si inventò il “Pollo alla Kiev!”… un piatto a cui Marchesi è stato sempre particolarmente affezionato… tanto che ha seguitato a modificarlo negli anni e oggi, rivisitato per una volta ancora, è nel menù del Marchesino, il suo ultimo ristorante alla Scala di Milano.
Ma gli anni della sua vera formazione, quelli della sua particolare rivoluzione culturale, quelli che porteranno la cucina italiana a un punto di non ritorno, sono senza alcun dubbio alcuno legati al ’68, che lui vive a Parigi, nel cuore più profondo del movimento ribelle. Tanto per Marchesi, la cucina è comunque un espressione culturale e tutto ciò che di innovativo il ’68 si portava appresso nell’arte come nella letteratura o il viver sociale, Marchesi l’ha riversato nella cucina. Parafrasando l’Artusi ha sempre detto che la cucina è di per sé una scienza … che solo i più bravi riescono a trasformano in arte… E arte per lui è stata … Arte e fantasia in uno sgorgare continuo di idee che l’ha portato, di ristorante in ristorante, di ricetta in ricetta, a rivisitare l’intera cucina italiana lasciando stupito il mondo intero, fino a quando l’idea ha fatto strada e si è imposta nelle sue infinite varietà… Cucina creativa è stato per Marchesi dare sfogo alle emozioni, giocare a un puzzle senza fine in cui le tessere sono state scomposte e ricomposte per dar vita a nuove figure, nuovi oggetti, e soprattutto nuovi colori, dove ogni piatto vuole diventare un quadro d’autore.. Con Marchesi, il suo particolare Iperuranio, già perfetto e chiuso in sé, è sceso in terra e si è posato sulle tavole, dando una linfa nuova a quelle ricche tradizioni d’italia che rischiavano ormai di morire soffocate nel formalismo ritualistico che da troppi anni le avvolgeva. .. Lui ha dato loro nuova vita utilizzando la sottrazione e il minimalismo per arrivare un gusto più raffinato ed essenziale della vita… Che dire dello spettacolare “Tripping di pesce” dove, per amor di Pollock , le vongole e i calamaretti della tradizione vanno a posarsi su una giallla base di maionese in mezzo agli spruzzi del nero di seppia ,della salsa al pomodoro e della maionese verde alla “clorofilla? E chi non é quasi impazzito davanti alla contraddizione in termini del ” Raviolo Aperto”, dove la pasta di copertura, impossibilitata ad avvolgersi al suo contenuto, resta distesa a ostentare la sua verde e incorporata foglia di prezzemolo ? E il nuovo risotto alla milanese, forse dedicato ai nuovi Re Mida lombardi , dove lo zafferano non è stato più sufficiente e Marchesi ha decorato il riso con una foglia d’oro a 24 carati appoggiata a centro piatto…?
Ma a pensarci bene tutta la “Nouvelle cuisine” di Marchesi è stato un lunghissimo atto d’amore per l’Italia, che lui ha orgogliosamente riproposto al mondo in una nuova forma, ma con gli stessi ingredientti che hanno fatto grande il territorio… E il suo appassionato rispetto all’Italia e alla sua supremazia ” culturale” – uno dei pochi, in un mucchio di politici, industriali e ricchi, proni all’Europa d’oltralpe – lo dimostrò con forza quando con polemica e verità nel 2008, fu il primo a restituire tutte le sue Stelle Michelin alla Francia… Nessuno si doveva più permettere di criticare e giudicare cuochi e ristoranti italiani, se non il pubblico e i clienti… Loro, quelli delle stelle, potevano al massimo indicare i luoghi e raccontare i piatti, ma non entrare con tutta l’albagia francese in terra d’Italia… Per Marchesi, infatti, il senso della stella era infranto convinto che,” ormai, si trattava di un gioco al rialzo, dove si saliva e si scendeva per tenere alto il buon umore e le fortune dei critici.”
Dal mondo innovativo di Gualtiero Marchesi una ricetta estiva che, nella forma argutamente ricreata, ricorda quasi una satiro o un folletto della commedia dell’antica Roma.
SEPPIA AL NERO
INGREDIENTI per 4 persone: 4 seppie freschissime da 150 grammi ognuna, vino bianco secco tipo Inzolia 1 dl,20 rametti di cerfoglio, 10 grammi di burro, pepe bianco q.b, sale q.b.
PREPARAZIONE: Cominciate la ricetta munendovi di guanti e facendo l’operazione di pulitura all’interno del lavandino. Servendovi di una forbice, incidete la seppia sul dorso dove si trova l’osso e con una leggera pressione estraetelo. Tagliate poi la testa e togliete tutte le interiora facendo attenzione alla sacca dell’inchiostro che dovrete riporre in una ciotola senza romperla. Eliminate dalla testa gli occhi e il becco e private l’intera seppia della pelle che la ricopre. Lavate poi accuratamente sotto l’acqua corrente. Iniziate la cottura riunendo in una piccola casseruola il vino bianco, un litro d’acqua , per poi salarlo e portarlo a ebollizione. Unitevi i tentacoli, il cappuccio delle seppie e cuocere a calore moderato per 20 minuti. Togliere dal fuoco. In un’altra piccola casseruola versare l’inchiostro e diluitelo con altrettanta acqua, scaldatelo a fuoco moderato senza portarle a ebollizione, aggiungete il burro a fiocchetti, amalgamandolo al resto con una frusta, quindi salare e pepare. Coprire con la salsa nera il fondo dei piatti, adagiarvi sopra le seppie con la parte concava rivolta verso l’alto, ricomporle unendovi i tentacoli, quindi guarnire con il cerfoglio.
Stabilimenti Penali di Pianosa, 26 febbraio 1933 “Mamma… Con quale animo hai potuto far questo? Non ho più pace da quando mi hanno comunicato che tu hai presentato domanda di grazia per me….Mi si lasci in pace con la mia condanna, che è il mio orgoglio e con la mia fede che è tutta la mia vita… Non ho mai chiesto pietà a nessuno e non ne voglio. Mai mi sono lagnato di essere in carcere e perché dunque propormi un così vergognoso mercato?…”
Stabilimenti Penali di Pianosa 23 febbraio 1933 – “A Sua Eccellenza il Presidente del Tribunale Speciale – La comunicazione che mia madre ha presentato domanda di grazia in mio favore, mi umilia profondamente. Non mi associo dunque a simile domanda, perché sento che macchierei la mia fede politica, che più di ogni cosa, della mia stessa vita, mi preme. Il recluso politico Sandro Pertini”
“Io lasciai l’Italia nel 1926.La mia vita si è svolta prima all’Università di Genova, poi a quella di Firenze,quindi come professionista a Savona. Il mio studio fu devastato due o tre volte. Vidi un paese di violenti, gli anni ’20 furono il periodo della sopraffazione fascista. Molti erano intimiditi da quelle violenze e sostenevano che non si dovevano provocare i fascisti… Questo non è stato il mio atteggiamento. Sono stato bastonato perché il 1 maggio andavo in giro con una cravatta rossa. Sono stato mandato all’ospedale… Perché ho appeso alle mura di Savona una corona di alloro in memoria di Giacomo Matteotti. Sono stato arrestato per aver diffuso un giornale significativo: Sotto il barbaro dominio fascista. Ho vissuto i miei 20 anni così e non me ne pento.”
Il 4 dicembre 1926 la Regia Prefettura di Genova ordina che “l’avvocato Sandro Pertini sia assegnato al confino di polizia per la durata di anni cinque”. Pertini sfugge alla cattura scappando a Milano. Da lì organizza la fuga di Filippo Turati, il grande leader del socialismo in pericolo. Tornano assieme a Savona dove li aspettano Ferruccio Parri, Adriano Olivetti e Carlo Rosselli… Anche Pertini deve andarsene… Li porteranno con un motoscafo in Corsica…”Olivetti ed io scendemmo in un’insenatura vicino al faro di Vado Ligure per perlustrare la zona. Dabove e Oxilia, i due capitani di mare, accostarono agli scogli con il motoscafo per prenderci a bordo, ma videro una guardia di finanza al molo e decisero di allontanarsi. Decidemmo di tornare a Savona e partire dal Lanternino Verde in piena città. La decisione era rischiosa perché quella sera Savona era piena di fascisti che festeggiavano la promozione a capoluogo di provincia. Sul molo del Lanternino Verde c’era il ristorante “I pesci vivi”… Passando con Turati e gli altri compagni, dicemmo ai carabinieri di guardia che andavamo a mangiare il pesce fresco. Quelli ci augurarono “buon appetito”…
Mentre gli amici che li hanno aiutati, a eccezione di Olivetti, finiscono tutti in carcere, Pertini in Francia resiste poco più di due anni. Duro e orgoglioso rifiuta l’aiuto di Turati e trova lavoro come muratore, lavavetri di taxi e comparsa cinematografica. Non ha la minima difficoltà a svolgere lavori umili, ma si sente troppo frustrato e inutile, anche se a Nizza mette su una radio clandestina per mantenersi in corrispondenza con i compagni…A marzo del 1929 torna in Italia con un passaporto falso, intestato allo svizzero Luigi Roncaglia. Ha grandi idee, prima fra tutte quella di ammazzare Mussolini, proprio mentre parla dal balcone di Piazza Venezia… Ma i sotterranei sono sorvegliati e bisogna cercare un’ alternativa…
A Pisa mentre sta ancora lavorando all’attentato viene arrestato… La sua libertà è durata meno di un mese… Al processo non si difende perché non riconosce l’autorità del Tribunale. A novembre del 1929 arriva la condanna a quasi 11 anni di carcere… Mentre il giudice legge la sentenza lui grida “Viva il Socialismo, abbasso il Fascismo”
Nel carcere di Santo Stefano, le condizioni sono durissime … Ci rimane quasi due anni e si ammala di tubercolosi.” … Improvviso un soffio di vento mi investe, denso di profumo dei fiori sbocciati durante la notte. È l’inizio della primavera. Quei suoni, e il profumo del vento, e il cielo terso, mi danno un senso di vertigine. Ricado sul mio giaciglio. Acuto, doloroso, mi batte nelle vene il rimpianto della mia giovinezza che giorno per giorno, tra queste mura, si spegne…”
Lo trasferiscono al carcere di Turi dove praticamente mandavano tutti quelli a cui avevano rovinato la salute… C’é anche Gramsci e nasce una grande amicizia. Pertini che per sè non chiede niente riuscirà, minacciando ricorsi, a non farlo più svegliare di notte dalle guardie che, sadicamente battono sulle sbarre appena vedono che chiude gli occhi… Poi otterrà che gli diano delle matite e dei block notes, una sedia, un tavolino… Ed è in questo modo che ci sono arrivati “I quaderni dal Carcere”. Quando tanti anni dopo uno dei ragazzi che lui tutti i giorni riceveva al Quirinale, gli chiederà il ricordo della persona a lui più cara in quegli anni di prigionia, risponderà senza esitazioni Antonio Gramsci.
Dopo circa un anno cambia di nuovo carcere… A Pianosa le sue condizioni di salute si aggravano ed è allora che sua madre firma la domanda di grazia che lui rifiuta sdegnosamente.. “E’ giusto dire che non fui il solo,” e ricordava diversi episodi di contadini ed operai che neppure in punto di morte lo avevano permesso alle proprie famiglie. E poi aggiungeva: “L’uomo che ha una cultura deve più degli altri essere fedele ai principi di libertà, perché se la cultura non crea una coscienza civica, non serve a nulla, è nozionismo, allora tanto vale andare ad un quiz televisivo…”
Nel 1934 esce dal carcere per essere inviato al confino… dove inviavano i dissidenti con reati minori o anche senza reati… Sono liberi ma non possono uscire dalla località in cui appunto sono stati… “confinati.” Quando nel 1936 scopppia la Guerra di Spagna però le condizioni dei confinati peggiorano… Pertini protesta e viene denunciato… Avrà un altro processo, viene assolto ma resterà al confino a Ventotene fino al 1940, quando la sua pena scade e dovrebbe tornare a casa…
Ma interviene Mussolini… Ordinanza della prefettura di Littoria del 20 settembre 1940: “Ritenuto che detto Pertini, per i suoi precedenti politici e per la sua attività sovversiva, è pericoloso per la sicurezza pubblica e per l’ordine nazionale dello Stato, si delibera: Pertini Alessandro è riassegnato al confino di polizia per la durata di anni cinque confermandone l’arresto”.
Nel 1941 riesce a incontrare finalmente la madre a Savona… “Essa apparve all’improvviso: piccola vestita di nero, bianchi i capelli e il volto. L’abbracciai. Piangeva e fra le lacrime andava ripetendo il mio nome. Dovetti fare forza per non dare alle guardie che ci sorvegliavano un segno di debolezza. Ma il cuore mi faceva male, pareva spezzarsi. Parlammo di tutto e di niente… Il capoguardia interruppe bruscamente il colloquio, vidi mia madre allontanarsi curva. Al mattino vennero a prendermi per ricondurmi a Ventotene. Alla stazione un gruppo di facchini mi attendeva, si levarono il berretto… Il più anziano dei facchini mi prese la valigia “Ci penso io Sandro” disse in dialetto. Il maresciallo lasciava fare. Arriva il treno, due facchini mi aiutano a salire perché ammanettato, mi volto: gli altri sono sempre col berretto in mano, fermi, muti. Il più anziano sistema la valigia, mi mette la mano sulla spalla: “Buona fortuna Sandro, tutti ti salutano”. “Si volta bruscamente e si allontana singhiozzando”.
A Ventotene c’è un famigerato poliziotto come direttore, Marcello Guida… Pertini scrive un esposto al ministero dell’Interno che ha come esito quello di rendere le condizioni dei confinati ancora più dure… Pertini è ritenuto un provocatore …
Nel 1969 dopo la strage di Piazza Fontana, il Presidente della Camera dei Deputati Sandro Pertini si recò a Milano per rendere omaggio alle vittime dell’attentato e si incontrò faccia a faccia con Marcello Guida. Aveva fatto carriera ed era diventato Questore di Milano… Sandro Pertini si rifiutò di stringergli la mano e si girò dall’altra parte… Forse in cuor suo pensò ancora una volta che Togliatti aveva sbagliato a non consentire, dopo la guerra, l’epurazione dei funzionari fascisti dalla Pubblica Amministrazioni…
Quando il 26 lugglio 1943 cade il fascismo gli 8oo confinati di Ventotene non hanno nemmeno più la forza di esultare….Pertini va da Guida che siede terrorizzato dietro la scrivania… La foto del Duce è già stata rimossa… Pertini sarà liberato per primo e da Roma comincia la battaglia burocratica per liberare anche gli altri… Rivedrà anche sua madre… e sarà l’ultima volta mentre il sogno di libertà si infrange subito dopo… A settembre è a Roma, a Porta San Paolo a sparare contro i tedeschi che stanno occupando militarmente la città… Poi gli daranno la Medaglia d’oro, ma intanto i nazisti riescono a entrare in città. Due mesi di clandestinità e viene nuovamente arrestato assieme a Giuseppe Saragat… Sono due Presidenti della repubblica”in pectore”, ma per il momento finiscono in carcere a Regina Coeli… e ci vuol poco a condannarli a morte… Bisogna organizzare la loro fuga… Massimo Severo Giannini e Giuliano Vassalli hanno ancora la carta intestata del Tribunale Militare di cui erano stati giudici fino all’8 settembre… Scriveranno un perfetto ordine di scarcerazione con tutti i timbri a posto… Ma Pertini riesce a complicare le cose… Non basta che facciano uscire lui e Saragat… Debbono liberare anche i loro compagni di cella… 4 ufficiali del breve governo di Badoglio… Alla richiesta si gettano tutti nel panico mentre Pietro Nenni, il Segretario del Partito Socialista si infuria… “Se è così allora fate uscire solo Peppino (Saragat)… Tanto Pertini a stare in carcere ci è abituato… ” Naturalmente l’ebbe vinta lui, ci rideva ancora, quando nel 1973, lo raccontò durante un’intervista a Oriana Fallaci..
Raggiunge Milano nel maggio del 1944 sull’auto di un amico. L’atmosfera è pesante e la pace lontana.. Milano è teatro degli attentati dei Gap e delle rappresaglie tedesche. Lui da clandestino viaggia in tutto il settentrione per organizzazione la stampa clandestina socialista …Ma appena Roma è liberata Pietro Nenni lo richiama… Lui non riuscirà a tornare tanto facilmente. Da Prato a Firenze le la farà a piedi appena in tempo per prendere parte all’ insurrezione della città, l’8 agosto… Da una tipografia fa uscire un numero dell’ “AVANTI !”.
Arrivato a Roma ci resta poco… Chiede di tornare a Milano come Segretario del Partito Socialista per tutta l’Italia occupata e come membro del Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia
Alle 8 del mattino del 25 aprile, del 1945 il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia si riunì presso il collegio dei Salesiani in via Copernico a Milano. L’esecutivo, presieduto da Luigi Longo, Emilio Sereni, Sandro Pertini e Leo Valiani proclamò ufficialmente l’insurrezione, la presa di tutti i poteri da parte del CLNAI ” I membri del governo fascista ed i gerarchi del fascismo colpevoli di aver soppresso le garanzie costituzionali e di aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del Paese e di averlo condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e nei casi meno gravi con l’ergastolo. “(Decreto del CLNAI, 25 aprile 1945)
Lo stesso giorno Mussolini tenta una mediazione per una resa onorevole tramite l’Arcivescovo di Milano, presso cui si recherà lo stesso Mussolini e i Membri del CNLAI. Sarà l’unica volta che Sandro Pertini vedrà il Duce… Ma non lo riconosce … Lui avvisato in ritardo sta salendo le scale dell’Arcivescovado quando vede un gruppo di persone che scende. In mezzo a loro c’è uno con la faccia emaciata, livida e distrutta. Quando entra e capisce chi era l’uomo Pertini chiese alla delegazione perché non avessero arrestato subito Mussolini…” Il Duce si è preso qualche ora per riflettere gli risposero… Pertini dalla rabbia sembrava uscito pazzo.. e chiede subito che Mussolini, una volta arresosi al CLNAI, venga consegnato ad un tribunale del popolo e non agli alleati come prevedeva l’armistizio firmato dal Re… Mussolini invece stava in quel momento già fuggendo e quando i partigiani lo ritrovarono l’ammazzarono senza consegnarlo, né agli alleati né al Tribunale del popolo, in uno di quei misteri italiani di cui poco si è capito… Pertini amaramente commentò “L’insurrezione è disonorata”.
Da allora Pertini diventò uno dei Padri della Patria… Mentre trovò il tempo di sposarsi con Carla Voltolina,la fiera staffetta partigiana che aveva conosciuto al Nord, divenne Segretario del Partito Socialista e poi Membro dell’Assemblea Costituente, Senatore Deputato e poi Presidente della Camera per due Legislature … Andava sempre un po’ controcorrente e in parecchi lo criticarono come quando da presidente della Camera vietò ai parlamentari democristiani di mostrare il loro voto, che doveva essere segreto, ai notabili del loro partito… ” Non mi meraviglia niente… ( L’avevano accusato di essere un po’ squilibrato)- disse in un intervista – So che il mio modo di fare può essere irritante. Per esempio, poco tempo fa mi sono rifiutato di firmare il decreto di aumento di indennità ai deputati. Ma come, dico io, in un momento grave come questo, quando il padre di famiglia torna a casa con la paga decurtata dall’inflazione… Voi date quest’esempio d’insensibilità? Io deploro l’iniziativa, ho detto. Ma ho subito aggiunto che, entro un’ora, potevano eleggere un altro presidente della Camera. Siete seicentoquaranta. Ne trovate subito seicentocinquanta che accettano di venire al mio posto. Ma io, con queste mani, non firmo… “
l’8 luglio 1978, la convergenza dei tre maggiori partiti politici si trovò sul nome di Pertini, che fu eletto presidente della Repubblica Italiana con 832 voti su 995, a tutt’oggi la più ampia maggioranza nella votazione presidenziale nella storia italiana. Furono anni durissimi e tuttavia riuscì a fare della figura del Presidente della Repubblica l’emblema dell’unità del popolo italiano. I cittadini si riavvicinarono alle istituzioni, mentre imperversava il terrorismo degli anni di piombo…
Per un certo periodo Pertini diventò “Il presidente dei funerali di stato”: fu al funerale del sindacalista Guido Rossa, davanti a 250.000 persone, che sferrò il più duro attacco alle Brigate Rosse… Era stato avvisato che nell’ambiente del porto di Genova c’era chi simpatizzava con le BR … Lui entrò in un garage pieno di gente e disse: “Non vi parla il Presidente della Repubblica, vi parla il compagno Pertini. Io le Brigate Rosse le ho conosciute: hanno combattuto con me contro i fascisti, non contro i democratici. Vergogna!”. Ci fu un momento di silenzio, poi un lungo applauso.
Sensa parlare del terremoto dell’Irpina, in cui dopo due giorni lanciò il suo grido desolato agli inconcludenti poteri dello Stato “Fate presto.” Erano morte quasi tremila persone e le autorità erano allo sbando. Lui li denunciò pubblicamente in televisione e a reti unificate …. Sottolineò la scarsità e l’inadeguatezza delle norme in materia di protezione civile nella prevenzione e in emergenza, denunciò la mancanza di un organo di coordinamento nelle calamità e ancor prima che accadessero, i tentativi di quelli che avrebbero speculato sulle disgrazie come nel terremoto del Belice. Dopo quell’appello disperato l’Italia ebbe una Protezione Civile che per parecchi anni fu riconosciuta come una delle migliori di tutto il Mondo…
I ragazzi li adorava… Lui si era sposato tardi … di figli suoi non ne aveva… ma in qualche modo fu il padre di tutti i ragazzi… Bisogna ogni tanto rivedere come si rivolgeva a loro… completamente alla pari senza far pesare né carica, né anzianità…
Lottò con tutte le sue forze contro la mafia difendendo l’estraneità delle popolazioni che la subivano, quando tutti in modo più o meno sottile volevano parlare di collusione dei cittadini…
Il suo modo di intervenire direttamente nella vita del Paese fu una grossa novità, quasi al limite dei poteri costituzionali… E per capirlo bisognava entrare nella sua ottica : “Per me libertà e giustizia sociale, che poi sono le mete del socialismo, costituiscono un binomio inscindibile: non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale,come non vi può essere giustizia sociale senza libertà” Se chi, di dovere, se ne dimenticava, interveniva il Presidente della Repubblica… Sicuramente ha dato fastidio a tanti, ma è stato il Presidente più amato dagli italiani..
Quando da Presidente riusciva ad andare a Savona, se ne andava sempre a mangiare il pesce, pretendendo, come al solito, di pagarlo di tasca sua anche agli uomini del seguito… Doveva compensare quella cena mancata, quando raccontò ai carabinieri che stava andando al ristorante “I pesci vivi” e invece stava scappando dall’Italia inseguito da un mandato di cattura…
Il Ciupin è una zuppa di pesce tipica della Riviera. Una volta era proprio il piatto dei poveri che si preparava con i pesci di scarto o avanzati… Ma ora invecealici e sardine sono considerati pesci di grande appeal, per tutte le proprietà di benessere che assicurano a chi ne mangia regolarmente…
CIUPIN
INGREDIENTI per 6 persone: 3 etti di alici,3 etti di sarde, 5 etti complessivamente di triglie di scoglio, 2 etti di pannocchie e/ o gamberi di media grandezza, 1 manciata di vongole e 1 di cozze 2 etti di seppie tagliate a striscioline, 6 pesci da scoglio,di proporzione riferita a una singola persona, tipo scorfano, gallinella, rana pescatrice, grongo a pezzi, 1 ciuffo di prezzemolo tritato, 1 cipolla tritata finemente, 2 spicchi di aglio, 4 pomodori maturi spellati e tagliati a pezzi,1 bicchiere di vino bianco secco, 1 bicchiere di olio extra vergine di oliva, sale e pepe e a chi piace anche un po’ di peperoncino, 12 fette di pane abbrustolito, 3 acciughe salate.
PREPARAZIONE: occorre 1 pentola e 1 ampio tegame,un passaverdure,un colino a maglie strette e uno schiacciapatate.
Mettete nella pentola un trito composto di metà dell’aglio e della cipolla e dell’olio, le due aggiughe salate tritate e fate imbiondire su fiamma media. Aggiungete le alici,le sarde e le triglie di scoglio a cui avrete tolto le lische e girate delicatamente per poi aggiungere 1 litro d’acqua e far bollire lentamente.
Nel tegame mettete un trito composto del restante aglio e cipolla, e fate colorire nell’olio di oliva, poi aggiungete i pomodori, le seppie e fate assorbire i liquidi. Aggiungete 1/2 bicchiere di vino, fate evaporare e infine aggiungete i crostacei. Infine versate il resto del vino e fate evaporare. Infine aggiungete 1 litro di acqua e fate bollire per 15 minuti. pane,Aggiustate di sale e pepe ed eventualmente di peperoncino. Le cozze e le vongole preventivamente pulite e fatte aprire sul fuoco, in un’altra padella con poca acqua, le terrete a parte.
Riprendete la pentola e con una frusta elettrica amalgamate l’intero contenuto riducendo il tutto a poltiglia, passatela nel passaverdure e poi filtratela nel colino, recuperate il contenuto residuo del passaverdura,inumiditelo con un po’ di brodo della pentola e ricavatene tutto ciò che è possibile con lo schiacciapatate. Aggiungete nel tegame il brodo ricavato dagli ingredienti della pentola e fate evaporare su fiamma media sino ad ottenere un brodetto consistente. Aggiungete i 6 da singola porzione, far bollire per 5 minuti e spolverate con il prezzemolo. Se fra i vari pesci c’è il grongo inseritelo nel tegame 5 minuti prima degli altri.
Per preparare i singoli piatti appoggiate sul fondo le fette di pane, aggiungete 1 pesce da singola porzione su ciascun piatto, decorate con qualche cozza o vongola ancora nel loro guscio tenute da parte, coprite con il brodetto e un filo di olio.
La baia davanti al mare non solo era bellissima ma aveva il valore aggiunto del porto naturale che avrebbe permesso grandi commerci con le città d’Europa che a metà del 17° secolo erano ancora avide di tutto ciò che si produceva nel Nuovo Mondo. Così quel gruppo di Puritani in fuga, prima dall’Inghilterra e poi dal Massachussets, nel 1638 finì per fermarsi nella terra dei Quinnipiack. Erano molto religiosi, ma avevano senso pratico. Si fecero subito consegnare il territorio dai nativi e pianificarono la loro città con una rigida griglia rettangolare, che fece di New Haven la prima città di tutta l’America del Nord, concepita con criteri moderni. Da allora e per tutto il periodo coloniale New Haven si è più volte distinta per la sua opposizione sempre piuttosto evidente agli Inglesi. La cosa era risaputa anche in Inghilterra perché dopo la restaurazione monarchica nel 1661, i giudici che avevano condannato a morte il Re Carlo I, per sfuggire alle persecuzioni del nuovo re, si andarono a rifugiare a New Haven e per non farli trovare dalle guardie regie il Sindaco mise a loro disposizione un’ampia grotta nelle colline di West Rock, che è ancora li da vedere con tanto di targa ricordo. Durante la rivoluzione americana tale fu la furia della città contro gli inglesi che rischiò seriamente di essere rasa al suolo.
Per fortuna che ciò non avvenne perchè così la città riuscì a salvare il suo impianto coloniale e la sua nascente industria che verso la fine del 18° secolo diventèrà una delle più particolari aree di sviluppo degli States, grazie alle invenzioni e alle fabbriche impiantate da Heli Whitney. Strana e beffarda vita, quella di Whitney. Come inventore è passato alla storia per la famosa “sgranatrice” una macchina industriale che separava la fibra dai semi di cotone, ma che in realtà non aveva inventato lui, ma una sua amica che, essendo donna, non aveva la possibilità giuridica di brevettare l’invenzione. Come imprenditore è da tutti ricordato per la sua fabbrica d’armi che però acquistò fama mondiale solo in seguito e per merito di Samuel Colt che vi siluppò la famosa pistola automatica che da lui prese il nome.
Eppure l’industria non era il vero destino di New Haven perché nella seconda metà del XX secolo, la città è entrata in crisi economica e ha spopolato il suo centro soprattutto a causa dei conflitti sociali e dell’eterogeneità delle sue etnie.
Per fortuna che New Haven ha avuto sempre il suo asso nella manica e seppure il modello cittadino e la vocazione industriale sono entrate in crisi ha finito per diventare il Centro Servizi di una delle più prestigiose università del Mondo. Yale, che porta il nome del suo principale benefattore, non potè nemmeno usufrire del patrimonio che Elihu Yale gli aveva lasciato per testamento. Successe infatti che, per una spaventosa commedia degli equivoci, il Sig. Yale lasciò i suoi averi al Collegiate College, morendo prima di sapere che il Collegiate non esisteva più, avendo cambiato il suo nome in Yale College. Ma ciò nonostante, oggi Yale ha beni per 22,5 miliardi di dollari, 12,5 milioni di libri distribuiti su 12 biblioteche, più di 3000 docenti e 11.000 studenti fra laureati e laureandi. E c’è di più! Se qualcuno sta programmando di diventare presidente degli Stati Uniti, o giù di lì, la cosa migliore che possa fare è quella di andare a studiare a Yale. Già una decina di anni fa un’autorevole rivista ha scritto in proposito ” Se c’è una scuola che può proclamare di educare i miglior leader della nazione, dai tre decenni passati, quella scuola è Yale” E come contraddirla se da Yale sono usciti i due Presidenti Bush, Gerald Ford e Bill Clinton e a scendere, ma nemmeno tanto, John Kerry, Gary Hart e Hillary Clinton?
Intanto da una decina di anni la città si sta veramente riqualificando, forse anche per non sfigurare di fronte a tutti i futuri presidenti che oggi sono solo studenti… Vita notturna, librerie, centri informatici, nuovi condomini, nuove linee ferroviarie e un incoraggiante ritorno della popolazione nel centro storico.
Ma dove la vita non è mai mancata, anche nei momenti più bui dell’ultima storia di New Haven è nei servizi di ristorazione. Se è vero che più di 120 ristoranti si trovano nelle zone centrali, è anche vero che tutta la città è la massima espressione dei ristoranti etnici che includono le cucine più svariate del mondo, la malese, l’etiope, la messicana, la thailandese, la vietnamita e naturalmente l’italiana. Perché New Haven è stato fra la fine del 19° secolo e i primi decenni del 20° uno dei poli di maggior attrazione dell’emigrazione dall’Italia meridionale e oggi si calcola che nei quartieri di East Haven, West Haven e Hamden, la percentuale di quelli che ormai sono italo – americani arriva al 50%. E qui gli italiani hanno dato o ridato vita a quello che pur essendo uno dei piatti più noti e sfruttati della cucina italiana, qui rivisitato in veste mix, è diventato un cult : “Sua maestà la Pizza” anzi come tutti qui dicono “Apizza”. Il suo debutto? L’anno 1925 da Frank Pepe Pizzeria Napoletana. La sua cottura? In un forno di mattoni, una volta a carbone, oggi a legna. I suoi colori? Rossa pomodoro o bianca, ottenuta con solo aglio, olio d’oliva e scamorza o pecorino. Chi vuole la mozzarella la deve chiedere! La sua base di pasta? un po’ bruciata in cottura! Una ricetta particolare? Quella con le vongole che si può mangiare da Pepe a da Sally Apizza. Ma se andate a New Haven non vi dimenticate nemmeno di Modern Apizza. E’ li dal 1934!
La storia di Pepe, colui che per primo ha portato la pizza a New Haven è emblematica dell’emigrazione italiana. Viene da Maiori, un piccolo paese della costa amalfitana, e quindi di pizza se ne doveva già intendere, ma quando arriva a New Haven va per diversi anni a preparare gli spaghetti nei ristoranti degli altri. Solo nel 1925 ha il coraggio di mettersi in proprio e apre un panificio che ovviamente diventa l’anticamera della Pizza. Riunisce la famiglia e 10 anni dopo è già famoso e apre un nuovo locale, andando ad abitare al piano sopra la Pizzeria. Le sue pizze sono bianche e rosse, tonde e grandi, con alcune caratteristiche anche un po’ strane come quell’impasto più simile al pane e un pò bruciato in cottura, il cui sapore un po’ forte si andava a smorzare col pomodoro o col formaggio!
Poi nel 1960 l’ultima invenzione, la pizza con le vongole. Le guardava sempre al banco del bar dove le servivano con gli aperitivi, tanto che una sera se le portò in cucina e le rovesciò sopra la pizza.
Era nata la PEPE’S STYLE WHITE CLAM PIZZA
INGREDIENTI (per una pizza da circa 35 centimetri): Per l’impasto: 3 cucchiai di farina, 2 cucchiai di farina di mais, 1/2 bustina di lievito istantaneo, 1 tazza di acqua calda,1/2 cucchiaino di sale, 4 cucchiai di olio extra vergine di oliva. Per il top della pizza: 36 vongole, 1/2 tazza (circa 100 grammi) di pecorino romano grattugiato,2 spicchi di aglio tritati, 4 cucchiai di olio extra vergine di oliva, 2 cucchiai di origano secco.
PREPARAZIONE : Far aprire le vongole fresche mettendole sul fuoco in una padella con l’aggiunta di qualche cucchiaio di acqua. Non appena si saranno aperte sgusciarle e metterle da parte. Nel frattempo pre – riscaldare il forno a circa 250°C.
Preparare l’impasto della pizza con tutti i suoi ingredienti e stenderlo su una superficie liscia dandogli un altezza di circa 1/2 centimetro. Spolverizzare la teglia con un po’ di farina di mais e poggiarvi sopra l’impasto. Distribuire le vongole sull’impasto in modo uniforme lasciando circa un centimetro di bordo vuoto, poi cospargere di aglio, formaggio, origano e infine versare sopra l’olio. Cuocere in forno per 30 minuti.La crosta, nel migliore stile Pepe, deve essere ben dorata, ma non bruciata. Servire calda accompagnata con la tipica bevanda Foxon Park o in alternativa con una birra ghiacciata o un vino Sauvignon Blanc.
Bahia, nel Nord Est del Brasile era una bella terra, tutta fiumi e foreste che arrivavano quasi a lambire le lunghe spiagge bianche. Da Bahia cominciò l’0ccupazione portoghese, quando Francisco Cabral approdò nel 1500 nelle vicinanze di Porto Seguro. Peccato che per i Tupinanba che, in quella zona ci abitavano da più di 700 anni, di sicuro rimase ben poco. Molti furono fatti schiavi, mentre altri morirono solo per il contatto col temibile uomo bianco, che trasmise loro terribili e sconosciute malattie, come il raffreddore. Se avessero saputo che stavano arrivavando i portoghesi, forse i nativi si sarebbero fatti un po’ di anticorpi…! A quelli che rimasero, poi, mandarono i Gesuiti a convertirli!
Ma sono stati proprio i Gesuiti, con i loro resoconti sempre a metà fra lo stupore e la pedanteria, a lasciarci qualche notizia sui Tupinanba che oggi, ridotti a sole tremila persone, hanno persino dimenticato la lingua Tupi. Il resoconto più antico, trovato per caso mezzo ammuffito in un archivio portoghese, risale al 1554 ed è francamente un pò horror! Il gesuita, Padre Luis de Gra é spaventato dagli indios ” Quì è l’inferno – scrive al re del Portogallo – Sono esseri maledetti, arrostiscono (moquecan) carne umana mescolata al pesce! E pensano che la nostra carne bianca sia una specialità! Per questo vi supplico di poter tornare in Portogallo prima possibile!”
Meno orrifica la descrizione di Padre Fernando Cardim che nel 1584 conferma l’uso delle griglia, ” Ci hanno dato la loro grigliata povera di pesci, ma con patate, patate dolci, mangara e altri frutti della terra…” Forse non erano così cattivi i Tupinanba! Pare infatti che il mangiar carne umana fosse limitato ai soli nemici morti in guerra.
C’è da dire che la grigliata antica poco ha a che fare con la Moqueca moderna, perché allora si trattava di “avvolgere i pesci con foglie di alberi o di piante erbacee e di metterle sotto la cenere calda,” secondo una cronaca del XVII secolo, mentre oggi e, chissà perchè, si è trasformata in uno stufato. Forse tutto ha a che fare con gli schiavi neri che i portoghesi, non a caso i maggiori trafficanti di schiavi dell’epoca, portarono in Brasile. La prima sosta era proprio a Bahia e molti li ci rimasero. Sembra che appunto gli africani fossero soliti chiamare “Mu’keka” uno stufato o zuppa di pesce, tipica della loro cucina. E, se questo piatto fosse un derivato dalla cucina indigena o una ricetta che avevano portato dall’Africa, non è facile assodare. In ogni caso,nell’attuale Moqueca c’è il pesce dei Tupinanba e lo stufato dei Neri.E poi si sa,il Brasile è il Paese dove tutto si mescola e, a volte, con risultati sorprendenti!
A proposito “Moqueca,” secondo il dizionario è qualunque tipo di stufato a cottura lenta, quindi comprende anche tutte le carni… ma il discorso ci porterebbe lontano ed è meglio racchiudere l’argomento alla “Moqueca de peixe” che è già ambbastanza complicata… E come poteva essere diversamente, considerata la fantasia e lo spirito indipendente dei brasiliani? In ogni regione c’è un modo diverso di cucinare il pesce e diversi sono i pesci da sciegliere e le spezie da aggiungere. C’è poi anche da tener conto che, delle due più famose versioni, la Moqueca Capixaba o di Espirito Santo, influenzata dagli Indios, prevede l’aggiunta di Urucum, mentre quella di Bahia, più debitrice alle etnie africane, va giù forte con il peperoncino e il coriandolo. L’augurio per tutti? Riuscire a gustarle entrambe.
MOCHECA DE PEIXE BAHIANA (per 4 persone)
INGREDIENTI PER IL PESCE: 800 grammi di pesce bianco a tranci come cernia, dentice, spigola; 400 grammi di frutti di mare come gamberi, calamari, cozze e vongole: 1 peperone verde senza semi tagliato e rondelle; 1 cipolla tagliata a rondelle; 2 pomodori rossi tagliati a rondelle; due spicchi d’aglio tritati; alcuni rametti di coriandolo o prezzemolo; 100 ml di olio di palma; 100 ml di latte di cocco; 2 peperoncini freschi verdi o peperoncino secco; 1 pezzo di zenzero lungo 3 cm, fresco, sbucciato e tritato; 2 cucchiaini di curcuma; 2 cucchiaini di paprika; sale.
INGREDIENTI PER IL RISO DI COCCO: 150 grammi di cocco fresco grattugiato che può essere anche quello che si trova in commercio secco purché non sia del tipo dolce; 5 tazze da te di riso di tipo patna, evitando in ogni caso tipi di riso profumati; sale; 10 tazze da te di acqua bollente:
INGREDIENTI PER IL PIRAO DE PEIXE:1 Kg di teste di pesce o pesce comune; un pomodoro tagliato a pezzi; 1 cipolla tagliata a pezzi; 1 mazzetto di prezzemolo; 1 1/2 litri di acqua; 2 spicchi d’aglio schiacciati; 3 cucciai di olio di oliva extra vergine; il succo di 1 limone; farina di manioca torrada; sale; 1 peperoncino fresco o secco.
PREPARAZIONE DELLA MOCHECA: In una padella larga sistemare uno strato di pomodori, peperoni e cipolle, un successivo strato di pesce e frutti di mare, salare e aggiungere un poco di coriandolo o prezzemolo e aglio; poi spolverare con una parte di curcuma, zenzero, peperoncino e paprika. Ripetere allo stesso modo per gli strati successivi sino a esaurimento degli ingredienti. In ultimo versare il latte di cocco e l’olio di palma.
Coprire e cuocere a fuoco alto fino al bollore, poi abbassare la fiamma e cuocere per altri 15 minuti senza mescolare.Aggiungere i gamberi e cuocere per altri 5 minuti.Quest’ultimo accorgimento è importante perché una cottura più lunga indurisce i gamberi.
SERVIRE BOLLENTE ACCOMPAGNANDOLO CON RISO AL COCCO E PIRAO DE PEIXE
PREPARAZIONE DEL RISO AL COCCO: friggere il cocco nell’olio finché prenda un po’ di colore, aggiungere il riso e il sale e far tostare girando con un cucchiaio, aggiungere l’acqua bollente un poco alla volta,coprire abbassare la fiamma e attendere che tutta l’acqua sia stata assorbita.Spegnere il fuoco e attendere qualche minuto prima di srvire in accompagnamento alla Mocheca.
PREPARAZIONE DEL PIRAO DE PEIXE. bagnare il pesce con il succo di limone e lasciar riposare per alcuni minuti. In una pentola fae riscaldare l’olio e far prendere un leggerissimo colore all’aglio e alla cipolla poi aggiungere il pomodoro e il peperoncino. Aggiungere il pesce e friggere leggermente. Aggiugnere l’acqua,il prezzemolo e il sale e far bollire coperto a fuoco medio per circa 30 minuti. Quando il pesce è cotto scolare il brodo e poi rimetterlo sul fuoco aggiungendo la farina di manioca a poco a poco, al fine di non formare grumi. Mescolare sino a formare una crema non molto spessa e trasparente. Cucinare per altri 3 o 4 minuti e poi servire caldo in accompagno alla Moqueca e al riso al cocco.
MOQUECA CAPIXABA o di ESPIRITO SANTO
Udite, udite! Questa è la ricetta di Dona Flor del romanzo di Jorge Amado dove la protagonista la descrive con dovizia di particolari e con continui nostalgici riferimenti al suo defunto marito. Quindi quanto ad autenticità fa sicuramente concorrenza alla ricetta di Bahia! Le principali differenze sono dovute al fatto che questa ricetta deve essere assolutamente preparata in un tegame di terracotta di cui la città di Espirito Santo è grande produttrice, poi altro aspetto importante sono le spezie, molto influenzate dalla cucina indigena e poco da quella africana e infine l’olio extra vergine di oliva come retaggio della cucina portoghese in sostituzione dell’olio di palma Concludendo, ad ognuno la sua Moqueca!
INGREDIENTI: ( per 4 persone) 1Kg e 200 grammi di pesce ( cernia, dentice, spigola,orata), 1 mazzetto di coriandolo, 1 mazzo di cipollotti, 1 cipolla media, 3 spicchi di aglio, 4 pomodori rossi, chili, olio extra vergine di oliva, 3 cucchiai di urucum, olio di soia.
PREPARAZIONE: Squamare il pesce, togliere le interiora, passare sotto l’acqua fredda e poi tagliare a fette di 5 centimetri. Ricoprire con succo di limone e lasciare riposare in un piatto coprendolo di acqua appena salata. Schiacciare l’aglio, tagliare la cipolla a grossi anelli cipolla,tritare il mazzetto di coriandolo tritato e il mazzetto di cipollotti e aggiungere il sale. Strofinare il fondo del tegame di terracotta con due cucchiai di olio di soia e 1 cucchiaio di olio extra vergine di oliva. Porre nel tegame una parte del trito di aglio, cipollotti, coriandolo e cipolla e porvi sopra il pesce scolato e poi ricominciare con il trito e successivamente con il pesce sino a esaurimento degli ingredienti. Irrorare con olio extra vergine di oliva e limone e lasciar riposare per circa 40 minuti. Far sciogliere in un poco di olio 3 cucchiai di urucum e versarlo sul pesce che si porrà subito a cuocere. Quando comincia il bollore, controllare il sale e senza rigirare far cuocere a fuoco alto e a tegame scoperto per 20 minuti circa. Si abbina con riso bianco o porridge.